Appendice dialettica alla Conferenza
di Tonino Mele (febbraio 2016)
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A seguito della pubblicazione dei video riguardanti il Convegno sugli Atti degli apostoli (Siena, 7 e 8/12/15) e delle reazioni spontanee che ne sono sorte, anch’io, avendo precedentemente ascoltato con attenzione le registrazioni, ho preso posizione, evidenziando in ordine sparso 11 tesi che il relatore principale ha cercato di sostenere, marcando così la radicale novità ed originalità delle sue affermazioni. Queste mie considerazioni sono rimbalzate a lui direttamente e ne è nato uno scambio pacato e cordiale, ove, pur prendendo atto della distanza delle nostre posizioni, abbiamo convenuto che io avrei riformulato in modo più compiuto, quei rilievi fatti in un discorso già iniziato. Ne è nata così questa “Appendice dialettica” ove io (MT..a), a titolo meramente personale, pongo quelle domande che evidenziano il nostro divario teologico, Fernando De Angelis (DAF) risponde cercando di farci “leggere ed intelligere” meglio il suo pensiero al di la dell’intento talvolta oratorio e talvolta effervescente della conferenza, ed io ribadisco nella mia replica (MT..b) quella visione delle cose verso cui lui si pone come alternativa.
MELE TONINO (MT) 1a. Consideri le tue convinzioni, malgrado la loro originalità e radicale novità, delle ipotesi di ricerca suscettibili di ulteriore definizione o delle acquisizioni per te ormai definite? Se non è così, perché, vista anche la specificità e la complessità delle questioni sollevate, si è dato alla conferenza un taglio più di tipo “oratorio” che dialettico, cioè privo di persone preparate nello specifico, che avrebbe dato modo ai presenti di comprendere meglio cosa era in gioco e a te modo di dimostrare meglio il valore delle tue asserzioni?
DE ANGELIS FERNANDO (DAF) 1.
Definisci il Convegno come “privo di persone preparate nello specifico”. Da parte mia considero pienamente adeguati gli altri componenti dello staff, mentre fra il pubblico è vero che c’erano poche persone ufficialmente titolate, ma si trattava per lo più di credenti abituati a riflettere sulla Parola di Dio e ad assumersi le proprie responsabilità. Pensando agli “allevatori di pecore” Abramo e Davide, a Pietro e Giovanni che vennero definiti «popolani senza istruzione» (Atti 4:13), mi viene da concludere che quando Dio vuole cominciare qualcosa di innovativo parte dal basso, perché sono proprio le esigenze del “popolo” quelle alle quali vuole andare incontro. I “capi” sono in genere restii ad ogni cambiamento e anche quando si convincono che è necessario, spesso hanno bisogno di molto più tempo e travaglio per uscire dall’ambiguità, come si può vedere in Nicodemo (Giov 3:1-2; 7:50; 19:39).
Riconosco di aver espresso le mie convinzioni in modo perentorio e comprendo come qualcuno ne possa essere disturbato. All’inizio del secondo intervento ho dovuto chiedere scusa all’uditorio, perché in quello precedente qualcuno era rimasto scandalizzato dal tono troppo alto e da qualche frase “sopra le righe”. Grazie per non esserti fermato alla forma, ma in quel tono non c’è comunque niente di autoritario, perché su quelle tesi ci ho dialogato prima e durante il Convegno, continuando a farlo come vedi anche ora.
MELE TONINO (MT) 1b. Come già ho detto precedentemente su questo social network apprezzo il tuo tentativo di fare un passo indietro sul “tono troppo alto” e “qualche frase ‘sopra le righe’”. Preciso solo che nella mia domanda non parlavo di “capi” ma di esperti della materia oggetto delle tue tesi, esperti non “di parte” come potrebbero essere visti i “componenti del tuo staff”, ma relatori che avrebbero avuto il compito di sostenere la lettura della Bibbia verso cui tu ti poni come alternativa, dando agli uditori di tirare le loro conclusioni e fare la loro sintesi.
MT 2a. Con la premessa di tipo ermeneutico alle tue tesi ritieni più legittimo partire dall’Antico Testamento per leggere il Nuovo Testamento e non viceversa: è l’Antico Testamento che getta luce sul Nuovo Testamento! Ora, riconoscendo che questo in parte è vero, essendo l’Antico e il Nuovo Testamento le due parti di una stessa storia, con antefatti e fatti, promesse e adempimenti, inizio e fine, non pensi che sia stato dato agli apostoli il compito di sistemare la dottrina cristiana, dare la giusta collocazione alla legge e il vangelo (cfr. Galati, Romani), l’Antico e il Nuovo Patto (cfr. 2Corinzi 3-4), Mosè e Cristo (cfr. Ebrei), Israele e la Chiesa (cfr. Romani 9-11 e Efesini 2-3)? Non pensi che sia l’insegnamento di Cristo (la parola Gv.1:17) e degli apostoli (il fondamento Ef.2:10) il criterio per dare la giusta collocazione ad ogni elemento della rivelazione biblica, la luce che illumina il tutto? Inoltre, pur riconoscendo che esiste un orizzonte immediato di ogni parola biblica, che non va snaturato mischiando Antico e Nuovo Testamento, non pensi che esiste un orizzonte più ampio che ci è dato conoscere grazie al progresso della rivelazione e che fa parte di quei “futuri beni” di cui l’Antico Testamento era solo “ombra” (Eb.10:1)? Non pensi che “la luce” è venuta con Cristo e quindi col Nuovo Testamento?
DAF 2. Dopo l’irruzione di Costantino e Agostino (IV secolo) ritengo che si sia sviluppata una “strategia dello stravolgimento” che si è approfondita e ci permea da quasi due millenni. Certe cose sembrano perciò evidenti, ma a me ora sembrano assurde. Come quando chiedi: «Non pensi che “la luce” è venuta con Cristo e quindi col Nuovo Testamento?». Da Adamo a Cristo intercorrono circa 4.000 anni: Dio ha forse lasciato al buio l’umanità per tutto quel tempo? Enoc, Noè, Abramo e Davide hanno forse vissuto una “fede senza luce”? È l’inizio del Vangelo di Giovanni che indica in Gesù “la luce”, ma dopo aver detto che «ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei» (Giov 1:1-3) e ciò implica che è con Genesi 1 che Gesù comincia a rivelarsi. Sembra allora evidente che Giovanni usi un linguaggio iperbolico e voglia dire che Gesù è una luce molto più splendente di quelle precedenti, non che tutto comincia con la sua incarnazione, dato che la sua esistenza precede quella di Abramo (Giov 8:58).
Gesù si è mantenuto in un contesto ebraico e la sua rivelazione è rivolta a chi conosceva l’Antico Testamento: dobbiamo perciò acquisire quello sfondo se vogliamo comprendere bene il Vangelo. Anche se, dopo aver compreso l’Antico Testamento alla luce dell’Antico, è opportuno rileggere l’Antico alla luce di un Nuovo Testamento precedentemente acquisito in modo corretto. I bereani (Atti 17:11) godono di un generale apprezzamento ed essi valutarono il messaggio di Paolo alla luce dell’Antico Testamento!
Il “progresso della rivelazione” non può significare che il nuovo è in contrasto col precedente, ma che il nuovo è lo sviluppo di ciò che già c’era. L’albero non contraddice la sua ombra, perché la visione diretta fa comprendere meglio, non diversamente.
(MT) 2b. Indubbiamente bisogna prendere le distanze da ogni ideologia che incide negativamente sul nostro modo di leggere la Bibbia, tuttavia non ho affermato che “da Adamo a Cristo Dio abbia lasciato al buio l’umanità” (cfr. Sal.119:105), ma che rispetto al passato, Cristo ha rappresentato una radicale novità, appunto “LA Parola” (Gv.1:17), “LA Luce” (Gv.1:8-9). Condivido il principio ermeneutico che per capire il NT si deve tener conto del suo sfondo giudaico e veterotestamentario, posso anche ammettere come fasi dell’esegesi una lettura del NT alla luce dell’AT, del NT alla luce dell’AT, dell’AT alla luce di un “NT corretto” (come lo definisci), tuttavia, il fondamento normativo per applicare oggi l’AT e il NT ce lo danno Gesù e gli apostoli (Ef.2:10) e quando ad Efeso vi erano “alcuni” che “vogliono essere dottori della legge”, Paolo precisa che “la legge è buona, se uno ne fa un uso legittimo…SECONDO il vangelo della gloria del beato Dio, che egli mi ha affidato” (1Tm.1:6,7,11).
MT 3a. La tua tesi di fondo, più volte ribadita nella stessa conferenza è la radicale continuità tra Antico e Nuovo Testamento, da cui nascono alcune delle tue affermazioni più radicali e originali, alcune delle quali elencherò nel prossimo punto. Ora, riconoscendo che esistono tra Antico e Nuovo Testamento elementi di continuità, in particolare tra il patto Abramitico ed il Nuovo Patto, non pensi che il Nuovo Testamento marchi invece la grande novità della venuta di Cristo e la discontinuità, soprattutto tra patto Sinaitico e Nuovo Patto (Eb 9:15; cfr. 1 Co 11:23-26; 2Co 3:4-14; Gal.3:21-29)? Non pensi che il fratello Rinaldo Diprose, pur consulente teologico di EDIPI di cui fai parte, avesse ragione quando scriveva: “È necessario riconoscere la discontinuità fra il patto della legge e quello basato sull’opera compiuta da Gesù il Messia…se il nuovo patto inaugurato da Cristo venisse considerato la semplice continuazione di quello che Dio strinse con Israele sul monte Sinai, su quale base potrebbero i pagani essere esonerati dai 613 obblighi incombenti su chi prende parte al patto sinaitico” (Israele e la chiesa, pg. 215-218)?
DAF 3. Qui si evidenzia come sia necessario discutere su Abramo e su Mosè, prima di parlare di Cristo; se poi si definisce Gesù come “il Messia” allora prima bisognerebbe chiarire il significato che quella parola aveva per un ebreo come l’apostolo Andrea (Giov 1:41), che certamente la collegava all’atteso “Figlio di Davide” descritto dai diversi Salmi “messianici” e da numerosi passi profetici. Non potendo essere esauriente, mi concentro su un solo aspetto.
I più fanno una stretta associazione fra Mosè e l’Antico Testamento, ma Paolo contesta questa impostazione, affermando che il fondamento dell’Antico Testamento è Abramo, con Mosè che va visto alla sua luce (Gal 3:15-18). La Bibbia è una “storia genealogica” che va da Abramo a Giacobbe, poi si interrompe e viene ripresa con Rut, bisnonna di Davide, arrivando infine a Gesù, Figlio di Davide. Anche secondo l’inizio del Vangelo di Matteo, Gesù prosegue la storia di Abramo e di Davide, dove Mosè brilla per la sua assenza dall’asse centrale. Cogliere una discontinuità fra Mosè e Gesù, evidenziando un collegamento diretto fra Abramo e Gesù, significa che il Nuovo Patto… ha un fondamento più antico del patto sul Sinai. Appare cioè come un recupero delle origini, che terminerà con quella restaurazione dell’Eden che troviamo alla fine dell’Apocalisse (21:1-4; 22:1-5).
MT 3b. Debbo riconoscere che qui ho fatto fatica a seguire tutto il tuo ragionamento, comunque trovo interessante quando dici: “I più fanno una stretta associazione fra Mosè e l’Antico Testamento, ma Paolo contesta questa impostazione …”. Penso che sia giusto non confondere l’AT come libro o tempo “da Adamo a Cristo”, con l’AT in quanto patto, perché son due cose distinte e laddove noi pensiamo di vedere la discontinuità, in realtà c’è continuità (cioè tra il patto abramitico e il nuovo patto), ma, d’altro canto, dove noi pensiamo di vedere la continuità, in realtà c’è discontinuità (cioè tra il patto mosaico e il Nuovo Patto). Per cui sarebbe buono usare una corretta terminologia, chiamando “Antico Testamento” i libri da Genesi a Malachia, “Antico Patto” il patto mosaico, “Nuovo Testamento” i libri da Matteo a Apocalisse e “Nuovo Patto”, il patto inaugurato sulla croce (vedi tuttavia 2Cor.3:14).
MT 4. Cerchi di accreditare la tua tesi di fondo con affermazioni tipo:
MT 4.1a. Israele non ha rigettato il Messia;
DAF 4.1. Già nel Convegno ho precisato che con questa frase, chiaramente polemica, intendevo contrastare un collegamento più o meno sottinteso che in essa spesso si coglie. Il sottinteso è che Israele non sarebbe più il popolo di Dio, sostituito da noi Gentili che invece Gesù lo avremmo accolto. La realtà è che “la maggioranza” degli Ebrei ha rifiutato il Messia, ma fino ad Atti 9 i primi numerosissimi seguaci di Gesù erano “tutti Ebrei” e “solo Ebrei”. Il fatto che solo “un residuo” abbia accettato il Messia non è niente di nuovo: solo un residuo rimase fedele dopo la distruzione di Gerusalemme e solo un “residuo del residuo” tornò dall’esilio, ma ciò non significò assolutamente che fossero annullate le promesse “nazionali” fatte da Dio ad Abramo e a Davide, definite “per sempre” e “eterne” (Gen 17:8; 2Sam 23:5).
MT 4.1a. Condivido pienamente il fatto che questo tipo di “collegamento più o meno sottinteso” è perlomeno inopportuno, anche se ciò non toglie che “Israele ha rifiutato il Messia”, seppur Dio non ha “sostituito Israele” e non ha “annullate le promesse” a loro fatte in precedenza.
MT 4.2a. L’ evangelizzazione mondiale c’è stata prima di Paolo a cura della sinagoga;
DAF 4:2. In Isaia è scritto: «Consolate, consolate il mio popolo […] proclamatele che il tempo della sua schiavitù è finito […] Tu che porti IL VANGELO a Sion sali sopra un alto monte […] Come un pastore, egli pascerà il suo gregge» (Is.40:9). Certo, ciò è vero anche riguardo a Gesù, ma Isaia si riferisce in prima battuta a quando finirà la schiavitù di Babilonia. È qui che nella Bibbia viene introdotta la parola “Vangelo/Buona notizia” e perciò è questo il significato che poi avrà… se i traduttori non usassero il trucco di rendere diversamente la stessa parola, in modo da avvalorare i loro presupposti!
Davide scrisse: «Il Signore è il mio pastore, nulla mi manca» (Sal 23:1). Insegnò a cantarlo non solo nel Tempio, perché Dio voleva essere il pastore di ciascuno. Questo lo sappiamo bene, ma non teniamo ben conto che già Davide e Salomone rivolsero questo messaggio anche ai non Ebrei (1Cro 16:8; 1Re 8:41-43), per poi essere portato fra le nazioni con la dispersione del popolo d’Israele e la fondazione delle sinagoghe.
Paolo scrive che Gesù «È stato predicato fra le nazioni, è stato creduto nel mondo» (1Tim 3:16). Se riteniamo corretta questa espressione di Paolo, in quanto riferita al mondo a quel tempo conosciuto, allora è corretto anche dire che già con le sinagoghe si era fatto un lavoro simile, perché Paolo non è andato al di là dei territori raggiunti già dalle sinagoghe, dato che anche a Roma c’erano già diversi Ebrei (Atti 28:17).
MT 4.2b. Non è un caso che Isaia sia stato definito il 5° evangelista, per l’affinità del suo messaggio col messaggio di Cristo, il che mostra che “il trucco” dei traduttori in fondo non è poi così riuscito! Comunque l’ebreo Pietro chiarisce che “non per se stessi, ma per voi (i lettori della lettera – 64-67 d.C.), amministravano quelle cose che ORA vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo, mediante lo Spirito Santo inviato dal cielo” ([Pentecoste] 1Pt.1:12). Ecco perché Marco, discepolo di Pietro, quando scrive “L’INIZIO del Vangelo di Gesù Cristo”, pur citando Isaia, fa partire questa “inizio” da Giovanni Battista” (Mc.1:1-4). Inoltre, se ho ben capito il ragionamento che fai su 1Tim.3:16, mi sembra debole, perché, qualsiasi valore si voglia dare alla parola “mondo”, Paolo non attribuisce la predicazione del vangelo alle sinagoghe, e se ne facciamo una questione di “territori raggiunti dalle sinagoghe” allora dobbiamo dare pari merito anche a quella formidabile rete di collegamento che sono state le “strade romane” nel mondo antico.
MT 4.3a. La sinagoga e la chiesa sono la stessa cosa;
DAF 4.3. Gesù ha detto: «Edificherò la mia chiesa» (Mat 16:18) e per i più ciò rende evidente il distacco di Gesù e dei suoi discepoli dall’ebraismo. In realtà è evidente che questo è un altro caso di manipolazione delle parole, al fine di accreditare presupposti sbagliati.
“Chiesa” è un’altra parola non tradotta, perché ricalca il termine greco “ekklesia”. Basta consultare un dizionario etimologico per rendersi conto che “sinagoga” e “chiesa” hanno grossomodo il significato di “assemblea”. I maestri di ebraismo (rabbi), come lo erano Giovanni Battista e Gesù, riunivano intorno a sé dei discepoli (cfr. Mat 9:14), perciò la “chiesa di Gesù” era l’assemblea ebraica dei discepoli di Gesù.
Dopo Cornelio e dopo Antiochia (Atti 10-11), a fianco delle “chiese/sinagoghe” dei discepoli Ebrei di Gesù, si formarono delle “chiese/sinagoghe” dei discepoli non Ebrei di Gesù, ma il modello restò quello della sinagoga: lettura comunitaria della Parola di Dio, preghiera, canto, esortazione, governo degli “anziani”, autofinanziamento.
MT 4.3b. Condivido le similarità terminologiche, liturgiche, amministrative e di conduzione tra la sinagoga e la chiesa, tuttavia non credo che ci sia manipolazione se si crede che, secondo il progetto di Gesù, la chiesa di Gesù Cristo è qualcosa di radicalmente nuovo, fondata su basi completamente nuove. Essa è nata a Pentecoste, quando “noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi” (1Cor.12:13). E riferendosi a quell’evento, l’ebreo Pietro lo definisce un “principio” (At.11:15).
MT 4.4a. Il Nuovo Patto non è così nuovo come si pensa, ma c’era già un “nuovo patto dell’AT” stipulato con i reduci da Babilonia;
DAF 4.4. Purtroppo in genere non si tiene conto che il Nuovo Testamento, più che “citare” l’Antico, lo “evoca”; cioè richiama alla memoria dell’uditorio l’intero contesto. Il versetto dell’Antico Testamento citato nel Nuovo, perciò, bisognerebbe considerarlo nel suo contesto originario. In Ebrei 8:8 è scritto: «Ecco i giorni vengono, dice il Signore, che io concluderò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda un nuovo patto»; essendo una citazione di Geremia, si ritiene evidente che si tratti di una profezia riguardante Cristo.
Quel passo in Geremia 31, però, fa parte di una sezione comprendente i capp. 30-33, che è collegata strettamente al cap. 29, nel quale Geremia rassicura gli esuli a Babilonia che dopo settant’anni Dio li farà tornare. I capitoli 30-33, perciò, sono rivolti a quegli stessi esuli, con i quali nel futuro Dio non vuole soltanto ripristinare i vecchi rapporti risultati inefficaci, ma intende stabilire un rapporto più profondo. Tutto ciò è ben chiaro all’inizio della sezione: «Ecco, i giorni vengono in cui io riporterò dall’esilio il mio popolo» (Ger 30:3); è evidente che in tutta la sezione i giorni futuri ai quali ci si riferisce non sono quelli dell’avvento del Messia, ma del ritorno da Babilonia (31:27,31,38; 33:14; cfr. anche 30:7-8; 31:1,6,29).
Per farla breve, Ezechiele riprenderà poi lo stesso tema in modo più sintetico e perciò di più immediata percezione; dato che Ezechiele rivolge la sua parola agli esuli in Babilonia, dove lui stesso si trovava, l’applicazione a quell’uditorio delle sue parole è inevitabile. Ezechiele trasmette, da parte di Dio, il seguente messaggio: «Vi farò uscire dalle nazioni, vi radunerò da tutti i paesi, e vi ricondurrò nel vostro paese; vi aspergerò d’acqua pura e sarete puri […] vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo […] sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Eze 36:24-28).
MT 4.4b. Nella citazione di Ger.30:3 ti sei fermato troppo presto. Presa per intero dice: «Ecco, i giorni vengono in cui io riporterò dall’esilio il mio popolo D’ISRAELE E DI GIUDA» (Ger 30:3). Questo è importante per capire i tempi di questo Nuovo Patto, come vedremo più avanti.
MT 4.5a. Con Gesù comincia “un nuovo ciclo, un altro nuovo patto”;
DAF 4.5. Quando Gesù avvisò che il Tempio e Gerusalemme sarebbero stati distrutti è come se si fosse “vestito da Geremia”. Nell’annunciare la distruzione del primo Tempio e la dispersione del popolo, Geremia rassicurò che ciò non avrebbe comportato la fine delle promesse di Dio ad Abramo, a Davide e al suo popolo. La storia del popolo liberato dalla schiavitù d’Egitto, insomma, non sarebbe finita con la schiavitù di Babilonia, perché Dio avrebbe operato una nuova liberazione (Ger 16:14-15; cfr. Isa 43:14-18).
Per il Nuovo Testamento il rapporto di Dio con Israele non finisce alla croce (Rom 9-11) e Gesù ha lasciato al suo popolo due “finché” (Mat 23:39; Luca 21:24), con i quali annuncia che ci sarà un rilancio del suo rapporto con Israele.
Il “nuovo patto” annunciato da Geremia agli esuli in Babilonia e che poi in qualche modo si realizzò, era per gli apostoli una garanzia che Dio avrebbe fatto un “nuovo patto” anche con i nuovi esuli che ci sarebbero stati dopo la nuova distruzione di Gerusalemme, ma sarebbe stato un patto più efficace di quello annunciato da Geremia, perché scritto col sangue di Gesù (Luca 22:20).
MT 4.5b. Condivido il fatto che “il rapporto di Dio con Israele non finisce alla croce”, ma non riconosco la disgiunzione che fai tra nuovo patto per gli “esuli in Babilonia” e “nuovo patto con i nuovi esuli che ci sarebbero stati dopo la distruzione di Gerusalemme”. Esiste un solo “nuovo patto” del quale Gesù è diventato “mediatore” e questo in virtù del fatto che “la sua morte è avvenuta per redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo patto” (Eb.9:15), dunque è “la sua morte” lo spartiacque tra antico o “primo patto” e nuovo o “secondo patto”.
MT 4.6a. La teologia dei patti è una beffa;
DAF 4.6. Entrando nella questione che poni in questo punto, parto dalla costatazione che alcuni espongono la “teologia dei patti” – cioè i vari patti di Dio che troviamo nella Bibbia – come se un nuovo patto comporti l’annullamento del precedente. Dio, insomma, si prenderebbe la libertà di non rispettare i patti stabiliti e perciò di beffare quelli con i quali li aveva fatti. Risulterebbe così meno affidabile degli antichi Romani, per i quali “pacta servanda sunt”, cioè i patti vanno rispettati ed un “nuovo patto” non può perciò alterare il precedente. Questo è anche il ragionamento di uno che era cittadino romano “di nascita”, cioè di Paolo (Atti 22:25-28), che lo ha esposto in un passo già ricordato (Gal 3:15-17).
MT 4.6b. Condivido la tua preoccupazione verso una lettura troppo rigida dei patti, quasi come dei compartimenti stagni, senza sovrapposizioni, ampliamenti ed altri elementi di continuità, soprattutto tra patto abramitico e Nuovo Patto. La fede è un elemento di continuità tra i vari patti (Rm.4; Eb.11). D’altro canto è pur vero che sia nell’AT che nel NT, si considera il Nuovo Patto una sostanziale novità, che sta in una radicale discontinuità rispetto all’Antico Patto: “farò un nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda; NON COME IL PATTO CHE FECI CON I LORO PADRI il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d’Egitto” (Ger.31:31-32); “Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di un nuovo patto, NON DI LETTERA, ma di Spirito” (2Cor.3:6 cfr. v.7-11); “se quel primo patto fosse stato senza difetto, non vi sarebbe stato bisogno di SOSTITUIRLO CON UN SECONDO” (Ebr.8:7 cfr. v.13; 9:15-17; 10:1,9).
MT 4.7a. L’epistola ai Romani non è una novità;
DAF 4.7. La Lettera è rivolta non ai Romani in senso stretto, ma ai credenti “che stavano” a Roma (1:7) ed è scritta non in latino, ma in greco. Se poi consideriamo che suppone un uditorio che ha conoscenza della legge di Mosè (7:1), allora diventa chiaro che anche la Lettera ai Romani è sostanzialmente rivolta a quell’elemento ebraico che era ancora prevalente nelle chiese. Tutti i passaggi teologici di quella Lettera sono supportati da citazioni dell’Antico Testamento e la giustamente famosa dottrina della “salvezza per grazia, mediante la fede” che Paolo annuncia, è lì presentata (cap. 4) come da Dio già applicata ad Abramo (prima della legge di Mosè) ed a Davide (dopo la legge di Mosè): niente di nuovo, dunque! Anche se quella meravigliosa Lettera rende tutto più chiaro e più facile da apprendere.
MT 4.7b. Qui devo dire “buona la prima, ma non la seconda e la terza”. Giustamente osservi che Paolo scrive ai credenti “che stavano” a Roma (1:7 cfr. v.15), ma questo può anche dipendere dal fatto che la chiesa era distribuita fra varie “chiese in casa” (vedi Rm.16:3-5,10,11,13,15). Non credo comunque che la lettera fosse rivolta “sostanzialmente all’elemento ebraico”, anzi, pur riconoscendo il carattere misto della chiesa, credo in una prevalenza gentile (cfr. 1:5,13-15; 6:19; 10:1-2; 11:13,25,28,30-31; 15:15-16). Inoltre non è vero che non c’è “niente di nuovo”: Paolo, pur riconoscendo la continuità col patto abramitico (cap.4), afferma la radicale discontinuità tra la giustizia della legge e la giustizia in Cristo, quando dice: “la legge dà soltanto la conoscenza del peccato. ORA però, INDIPENDENTEMENTE DALLA LEGGE, è stata manifestata la giustizia di Dio, della quale danno testimonianza la legge e i profeti, vale a dire la giustizia di Dio MEDIANTE LA FEDE IN GESÙ CRISTO” (3:20-22). Questa è una giustizia di Dio del “tempo presente” (v.26), laddove in passato c’era solo “tolleranza” e “pazienza” (v.25-25).
MT 4.8a. Non c’è grande novità tra il ruolo dello Spirito Santo nell’AT e nel NT;
DAF 4.8. “Spirito Santo” letteralmente significa “soffio che appartiene a Dio”. I testi originali della Bibbia sono di solito scritti in lettere maiuscole, così sono i traduttori a decidere se mettere “Spirito” o “spirito”. In certi casi la decisione è problematica, ma in altri il traduttore è chiaramente influenzato da quei presupposti che vuole giustificare. Mi pare che nelle traduzioni più recenti si accetti di mettere più facilmente “Spirito” anche nell’Antico Testamento, ma alcuni lo ritengono pressoché proibito. Per obiettività, allora, riportiamo alcuni passi dell’Antico Testamento scrivendo la parola tutta in maiuscolo (SPIRITO).
«Dicevo: “Parleranno i giorni, il gran numero degli anni insegnerà la saggezza”. Ma quel che rende intelligente l’uomo è lo SPIRITO, è il soffio dell’Onnipotente» (Giobbe 32:7-8).
Il Signore disse a Mosè: «Radunami settanta fra gli anziani d’Israele […] prenderò lo SPIRITO che è su te e lo metterò su di loro, perché portino con te il carico del popolo […] appena lo SPIRITO fu posato su di loro, profetizzarono» (Num 11:16-25).
«Da quel giorno lo SPIRITO del Signore investì Davide» (1Sam 16:13). «Lo SPIRITO del Signore investì in mezzo all’assemblea Iaaziel» (2Cro 20:14). «Lo SPIRITO del Signore t’investirà, e tu profetizzerai con loro e sarai cambiato in un altro uomo» (1Sam 10:6).
Nel Nuovo Testamento non viene spiegato che cos’è lo SPIRITO, perché è dato come già conosciuto e perché produce gli stessi effetti che nell’Antico. Viene solo chiarito che lo SPIRITO: a) come profetizzato, “investirà” non solo alcuni ma tutti (Gioele 2:28-32; Atti 2:17-18); b) dimorerà nel credente per sempre, come spesso succedeva nell’Antico Testamento; c) è una persona divina (ed è questa la novità più importante, che però credo possa essere vista come sviluppo) (Giov 14:15-17; Atti 5:3).
MT 4.8b. Condivido la difficoltà che talvolta s’incontra nella Bibbia nel poter definire se si parla dello spirito con la “s” minuscola o la “S” maiuscola. In virtù di ciò accolgo con beneficio d’inventario la tua proposta su Giobbe 32:7-8, tuttavia, per “gli effetti” di cui parli preferisco attenermi all’inventario già fatto da Gesù e dagli apostoli in merito al ruolo radicalmente nuovo che lo Spirito assume nel Nuovo Patto, chiamato altresì “il nuovo regime dello Spirito” contrapposto a “quello vecchio della lettera” (Rm.7:6 cfr. 2Cor.3:6), dove sì lo Spirito era presente in modo parziale e discontinuo, in concomitanza col Tempio, laddove ora siamo noi “il tempio dello Spirito Santo” (1Cor.6:19). Si potrebbe dire che nell’AT si poteva essere “aspersi” di Spirito Santo, ma nel Nuovo Patto si è “battezzati in Spirito” (At.1:5), cioè immersi!
MT 4.9a. L’Israele etnico è un errore;
DAF 4.9. L’idea che nell’Antico Testamento per Israele si intenda solo un gruppo legato da vincoli di sangue è falsa. Solo i depositari della promessa ad Abramo dovevano essere geneticamente legati a lui (Gen 15:4), ma la comunità di fede era senza confini. Perché insieme ad Abramo furono circoncisi anche i suoi schiavi (Gen 17:9-13), perché chiunque poteva decidere di farsi circoncidere e divenire membro a pieno titolo del popolo di Israele (Eso 12:48), perché anche il non circonciso poteva offrire i sacrifici nel Tempio e con le stesse regole dei circoncisi (Num 15:14-16), perché Dio ascoltava anche le preghiere dei non circoncisi (1Re 8:41-43). Ma i “nuovisti”, per giustificare un Nuovo Testamento pieno di nuove aperture, sono costretti a nascondere quelle che nell’Antico già c’erano. Caleb, rappresentante della tribù di Giuda, è un esempio molto significativo: a lui fu assegnata la porzione della Terra Promessa dove c’è la tomba di Abramo, della quale fu perciò il custode; Caleb era però di etnia kenizea, cioè Gentile! (Num 13:6; 14:24; 32:12 in cfr. a Gen 15:19; Giosuè 14:6-14)
MT 4.9b. Condivido che sia riduttiva “l’idea che nell’Antico Testamento per Israele si intenda SOLO un gruppo legato da vincoli di sangue” e che sia sbagliato dar risalto al nuovo, nascondendo i suoi elementi di continuità col vecchio, come appunto la presenza anche nell’AT di una “fede senza confini territoriali e razziali”, tuttavia è anche vero che “nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, COSÌ COME ORA, per mezzo dello Spirito…vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi [ebrei], membra con noi di un medesimo corpo…” (Ef.3:5-6). Di fatto il concetto di elezione richiama il concetto di selezione (Am.3:2), anche se pure “i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt.15:27). Forse la grande novità è che ora non si tratta più di casi isolati quali quelli che citi, ma di “nazioni, tribù, popoli e lingue” (Ap.7:9 cfr. Is.21:10-12).
MT 4.10a. Noi ritroviamo la nostra vera identità stando con i fratelli ebrei;
DAF 4.10. Credo di aver detto la frase che mi attribuisci, ma non ricordo bene quanto l’ho spiegata. In sé appare anche a me un po’ esagerata, ma come lo sono le frasi con le quali si fa una sintesi, perciò chiarisco. Stefano parlò di Giuseppe e di Mosè perché li considerò come prefigurazioni di Cristo (Atti 7). Giuseppe e Mosè furono costretti a vivere al di fuori del loro popolo, sposarono delle non ebree e stavano per perdere la loro identità, che ritrovarono quando si riunirono ai loro fratelli, che erano certamente meno “santi” di loro, ma che in ogni caso erano depositari della storia di quel popolo. La nostra radice è in Abramo perciò personalmente , come “figlio di Abramo”, sento un legame e un debito anche con quegli Ebrei che non hanno accettato Gesù come Messia, nonostante le non trascurabili diversità. Paolo arrivò a dire che, per amore dei suoi fratelli increduli, sarebbe stato quasi disposto a separarsi da Cristo e che, quando Israele accoglierà Gesù come Messia, ciò sarà per tutti di grande benedizione (Rom 9:3; 11:11-15).
MT 4.10b. Condivido quasi tutto quello che dici in questo punto, anche se non ne farei una questione di identità, ma semmai di riconoscenza, di simpatia e di rispetto per le alterne vicende di un popolo che Dio ha scelto e per il quale ha ancora un programma che ci riguarda da vicino. Puoi farne una questione di identità (ma quale?) con gli esempi che citi, visto che Giuseppe, Mosè e Paolo erano Ebrei, quindi subentra anche un legame di sangue. Questo legame può anche sfociare in un “debito” spirituale per quelli di “casa tua” (Lc.8:39). Questo è quello che fa Paolo quando, in un discorso diretto a “voi stranieri” (Rm.11:13)“ sui rapporti con l’Israele incredulo (“i rami”), avoca a se il ruolo di “provocare la gelosia di QUELLI DEL MIO SANGUE, e di salvarne alcuni” (v.14), mentre ai non ebrei, ingiunge solo, pur riconoscendo di essere “diventati partecipi della radice e delle linfa dell’olivo” (v.17), di non insuperbirsi (v.18), ma di temere (v.20).
MT 4.11a. Se non ci facciamo carico di Israele, ci attende l’ira di Dio; 12. Ecc. ecc. ecc.
DAF 4:11. Qui suppongo di essere stato meno estremo di quanto la frase indichi, ma la sostanza cambia poco. Abbiamo appena visto che Giuseppe e Mosè rappresentarono la parte di Israele più vicina a Dio e perciò possono essere assimilati al “residuo” del quale parlano i profeti (per es. Isa 1:9; cfr. Rom 9:27-29). Il compito del residuo, però, non è quello di prendersi tutta l’eredità e andarsene, ma quello di farsi carico di tutto il popolo e di portarlo alla salvezza. La Chiesa è “il residuo di Israele”? Posso anche ammetterlo, ma solo se come residuo ci poniamo l’obiettivo di essere d’aiuto a quelli rimasti indietro, non se invece usiamo la grazia che ci è stata fatta per disprezzare il popolo di chi ce l’ha portata.
In Genesi 12:3, Dio promette ad Abramo che benedirà quelli che lo benediranno e maledirà quelli che lo malediranno. Abramo è visto come un tutt’uno con la sua discendenza, perciò credo che quella promessa riguardi anche gli Ebrei di oggi. L’attuale Stato di Israele può anche sbagliare e quando succede dobbiamo ammetterlo, ma credo che il nostro amore per loro debba essere fermo come lo è per un familiare.
La cristianità applica abbondantemente a sé i Salmi ed in uno di loro è scritto: «Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (Sal 137:5-6). Credo che dobbiamo applicare a noi anche questi versetti e che sia sempre pericoloso scartare le parti della Bibbia che non ci piacciono.
MT 4.11b. Anche qui condivido buona parte di ciò che dici, anche se rifuggo da ogni estremismo intorno al tema di Israele, ove un amore acritico verso Israele è stato eletto a fine assoluto, da raggiungere con mezzi alquanto discutibili, quale ad esempio quello di sostenere economicamente l’apparato bellico di Israele o mettere insieme un pluralismo esegetico, privo di una linea teologica chiara ed unitaria. Per quanto riguarda poi il rapporto tra la Bibbia e l’Israele di oggi, credo che esso sia fatto non solo di “promesse”, ma anche di “minacce” (cfr. Deut.30).
MT 4.12a. Ora, riconoscendo nelle tue “rivisitazioni” dei testi biblici che citi, degli spunti esegetici interessanti, non credi che siano queste delle conclusioni azzardate, sia da un punto di vista esegetico che teologico? Non credi che la definizione del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento vada ricercata nella valutazione teologica che ne hanno dato gli autori del Nuovo Testamento, piuttosto che in questo “elenco delle continuità” al quale si può opporre benissimo “un elenco delle discontinuità”, dando l’impressione di voler risolvere la questione “ai punti”?
DAF 4.12. Le mie convinzioni sull’Antico Testamento ho cominciato a formarmele attraverso il Nuovo, perché essendo un Gentile ho anch’io letto la Bibbia “al contrario”. Rileggendola poi per il verso giusto, si sono aggiunti molti altri argomenti, ma l’impianto di fondo è rimasto quello ricavato dal Nuovo.
In un Convegno, anni fa esposero una lista dei contrasti fra Antico e Nuovo Testamento: ne fui contento, perché così potevo controllare le mie convinzioni, che erano già “unitarie”: dopo aver esaminato quella lista non ci trovai nemmeno un’argomentazione valida! Perché è vero che le differenze ci sono, ma credo che siano TUTTE riconducibili al concetto di sviluppo (si amplia e si precisa ciò che era stato già introdotto) e a quello di aggiornamento (verificandosi nuove circostanze, Dio ci adatta i suoi immutabili principi).
Recentemente qualcuno mi ha fatto vedere una lista che, nella Bibbia Thompson, è posta prima del Vangelo di Matteo e che fa un confronto fra l’Antico e il Nuovo Testamento, elencando 17 argomenti: per lo più mi sembrano sciocchezze, ma alcune ritengo che arrivino addirittura ad offendere Dio.
Se tu mi farai un elenco delle “discontinuità”, convincendomi che ce ne sia almeno una valida, non riterrò più che la “continuità” sia vittoriosa per KO.
MT 4.12b. Non credo che la questione vada risolta ai punti, anche perché sarebbe una sorta di “vittoria di Pirro”, fondata sulle macerie di una Bibbia contraddittoria e dilaniata da opposte evidenze. Invece è molto meglio considerare le continuità e le discontinuità della Scrittura come fasi dell’esegesi e del processo di osservazione del testo, da mettere poi insieme in un quadro interpretativo e teologico più ampio e unitario, che ci mostri il continuum che si dispiega dalla Genesi all’Apocalisse, visto che si tratta di una stessa trama e di una stessa storia salvifica, senza per questo relativizzare i punti di svolta, il prima e il dopo, il primo ed il secondo, il vecchio e il nuovo, il così e il non così, prendendo atto che ci sono linee che si protendono dall’inizio alla fine e linee che si interrompono. “Sciocchezze” non sono le discontinuità o le continuità, ma il volerne fare un “elenco” da contrapporre all’altro “elenco”, senza rendersi conto che così si sta segando l’albero ove tutti noi, sinceri lettori della Bibbia, siamo seduti. Da una tal cosa nessuno ne esce vittorioso per KO. Invece, mettendo insieme continuità e discontinuità e cogliendone il loro valore complementare, possiamo delineare un discorso unitario, senza finire per fare proiezioni indebite, cristianizzando l’AT e giudaizzando il NT. Insomma, ne deriverà un risultato che è più della somma delle parti!
MT 5. Entrando più nel merito delle tue affermazioni su elencate:
MT 5.1. Se Israele non ha rigettato il Messia, perché Paolo dice che “Israele… hanno urtato nella pietra d’inciampo” (Rm.9:31-32), “non si sono sottomessi alla giustizia di Dio” (10:3) e parla di “caduta” (11:11), “ripudio” (11:15), “I Giudei…Colmano senza posa la misura dei loro peccati; ma ormai li ha raggiunti l’ira finale” (1Ts.2:14-16)?
DAF 5.1. Come spiegato in 4.1, il significato esplicito di questi versetti naturalmente lo condivido, ma ne contesto i significati impliciti che spesso ci si associano, come il pensare che il nostro popolo italiano abbia fatto meglio.
MT 5.2a. Se l’evangelizzazione dei pagani c’è stata prima di Paolo a cura della sinagoga, di quale tipo di vangelo stiamo parlando, visto che il solo aver mischiato croce e legge ha portato Paolo a dire ai Galati che quello era “un altro vangelo” (Gal.1:6), figuriamoci cosa avrebbe detto di un “vangelo senza croce”, visto che la croce per “i Giudei è scandalo” (1Cor.1:23)?
DAF 5:2. Della Lettera ai Galati se ne fa spesso un uso non rispettoso dell’insieme del testo. Riconosco di non essere ancora arrivato a farne un’analisi dettagliata, ma nel modo in cui viene utilizzata ci trovo spesso qualcosa di inappropriato. Legge e grazia, per esempio, per Paolo sono prima rappresentati da Abramo e da Mosè (3:15-24), poi da Sara e Agar (4:21-31), cioè da elementi interni all’Antico Testamento. Solo a chi legge l’Antico Testamento con i paraocchi può sfuggire che esso è pieno della grazia di Dio, a cominciare dall’amore che Dio continuò ad avere per l’umanità anche dopo il peccato di Adamo, nonché al perdono di Dio verso Israele dopo che aveva fatto il vitello d’oro (in Esodo 33:12-19 la parola “grazia” ricorre 7 volte!).
Se nell’Antico Testamento non ci fosse stato un Dio di grazia, la storia del popolo di Israele sarebbe potuta finire in ogni momento: per esempio e ancor più con la distruzione del primo Tempio. I profeti annunciarono con pari forza il giudizio e la grazia di Dio. Parallelamente, nel Nuovo Testamento la grazia di Dio non è senza legge e basterebbe pensare al discorso di Gesù sul Monte (Mat 5-7). I Galati davano alla legge un posto sbagliato, ma chi la metteva al posto giusto la trovava compatibilissima con la fede in Cristo, dato che in Atti 21:20 si può vedere (ma i più chiudono gli occhi!) che le decine di migliaia di Ebrei che avevano creduto in Cristo erano «tutti zelanti per la legge»!
Nell’ultima parte di questo punto mi pare che tu cali di tono, dato che Paolo afferma prima che per i Giudei la croce è scandalo, poi prosegue dicendo che per i Gentili è pazzia: ciononostante, con la sua predicazione della croce, alcuni Ebrei e alcuni Gentili comunque si convertirono.
MT 5.2b. Temo che qui non hai capito il senso della domanda, che comunque ha più un valore retorico, per cui la riformulo sotto la forma di ciò che penso: non credo che prima di Paolo ci sia stata un’evangelizzazione dei pagani, nel senso in cui ce l’ha fatto conoscere nelle sue lettere, il cui epicentro è proprio quella croce che per i Giudei è scandalo e per i Greci pazzia.
MT 5.3a. Se la sinagoga e la chiesa sono la stessa cosa, perché Paolo dice con enfasi “di questa [la chiesa] io sono diventato servitore” (Col.1:25), se già era al servizio delle “sinagoghe” (At.9:2) quando perseguitava i cristiani?
DAF 5.3. Credo di aver sostanzialmente risposto già al punto 4.3. Paolo era diventato servitore della “assemblea (chiesa) dei discepoli di Gesù”, che in un contesto di credenti poteva essere indicata semplicemente come “assemblea” (chiesa). Paolo predicava prima nelle sinagoghe e poi anche fuori. Solo una minoranza di Giudei e di Gentili si convertiva. I convertiti non uscivano dalle sinagoghe, ma di solito ne erano espulsi dalla maggioranza che aveva rifiutato di credere. Gentili ed Ebrei che seguivano Cristo, insomma, finivano per formare un’altra “assemblea”, che si può chiamare sia “chiesa” sia “sinagoga”. Paolo era prima al servizio della maggioranza degli Ebrei, poi del “residuo” di quel popolo, al quale si associavano un certo numero di Gentili. Solo chi ha fatto un’analisi superficiale del Nuovo Testamento può ritenere che Paolo, dopo aver incontrato l’ebreo Gesù sulla via per Damasco, abbia cessato di essere un Ebreo.
MT 5.3b. Nessuno ha affermato che “Paolo, dopo aver incontrato l’ebreo Gesù sulla via per Damasco, abbia cessato di essere un Ebreo”, ma che lui considerava completamente differente il suo ruolo nella chiesa di Cristo rispetto al suo ruolo nella sinagoga, indice questo della radicale differenza che faceva l’ebreo Paolo tra le due entità (cfr. Flp.3:4-9).
MT 5.4a. Se il Nuovo Patto è stato stipulato con i reduci da Babilonia perché Geremia usa la formula escatologica “Ecco, i giorni vengono” (31:31a), lasciando intendere un intervallo non così immediato, inoltre, perché Geremia dice che i destinatari sono “la casa d’Israele con la casa di Giuda” (31:31b), quando dall’esilio era ritornata solo la casa di Giuda, e infine, perché Gesù dice: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi” (Lc.22:20)?
DAF 5.4. Anche in questo caso ritengo di aver per lo più risposto: nel punto 4.4 su Geremia e nel 4.5 su Luca 22. Aggiungo solo che non mi risulta che dall’esilio sia tornata solo la tribù di Giuda. Prima di tutto perché fra i Giudei si erano continuamente inseriti anche quei membri delle altre tribù che volevano essere più coerenti con la loro fede in Dio (2Cro 11:13-17; 15:9; 30:11); in secondo luogo perché nell’esilio la separazione “politica” fra regno del Nord e regno di Giuda non aveva più rilevanza. Nelle sinagoghe si accoglievano anche i simpatizzanti Gentili, perciò non si faceva certo distinzione fra Ebrei appartenenti all’una o all’altra tribù, anche se la prevalenza e il nome restarono quelli di Giuda.
MT 5.4b. Ciò che dici in questo punto riguardo all’integrazione di “membri delle altre tribù” nel regno di Giuda è interessante, ma è sufficiente per relativizzare la distinzione politico-religiosa tra “Israele” e “Giuda”? È vero poi che l’esilio abbia dato il colpo di grazia a questa distinzione? Non voglio sminuire quella che potrebbe essere una buona pista esegetica (cfr. Esd.6:17; 8;35), però ci sono alcuni fatti che militano contro questa tesi: 1. la profezia ha distinto in modo netto “la casa d’Israele” e “la casa di Giuda” (Ger.31.31b); 2. la letteratura post-esilica (Esdra, Nehemia, Ester, Aggeo, Zaccaria, Malachia) continua a mantenere questa distinzione; 3. Esdra 1:5 specifica che “Allora i capi famiglia di GIUDA e di BENIAMINO, i sacerdoti e i Leviti, tutti quelli ai quali Dio aveva destato lo spirito, si misero in cammino verso Gerusalemme per ricostruire la casa del Signore”.
MT 5.5a. Se esistono diversi nuovi patti, perché Paolo parla semplicemente di “due patti” (Gal.4:24) e l’autore agli Ebrei parla semplicemente di un “primo” e di un “secondo” patto (Eb.7:22; 8:6-7,13; 9:18)?
DAF 5.5. Vorresti allora dire che il patto con Abramo non esiste? Nell’Antico Testamento vedo due serie di patti: una “innovativa” e l’altra “conservativa”. Nella serie “innovativa” metterei i patti con Adamo ed Eva, con Noè, Abramo, sul Sinai e con Davide (Gen 1-3; 9:1-17; 12:1-3; Eso 19 e segg.; 1Cro 17:11-14). In essi viene rispettato il patto precedente che però subisce un aggiornamento, reso necessario dalle circostanze.
La serie “conservativa” è legata al patto sul Sinai, che strettamente parlando riguardava solo quella generazione, al punto che Mosè ne fa un altro alla fine dei suoi giorni nelle pianure di Moab, cioè quando ormai c’era un’altra generazione (Deu 28:69 a 29:27). Questo “nuovo patto di Mosè” non cambia la sostanza, ma ha il senso di un rinnovato impegno a mettere in pratica la legge data sul Sinai. Alcuni dei migliori re di Giuda posteriori a Salomone, promossero anch’essi un patto che rinnovasse l’impegno del popolo ad osservare la legge di Mosè (2Cro 15:12; 23:16; 29:10; 34:31). Significativo che fra di essi ci sia anche Giosia, con il quale Geremia si sentiva molto in sintonia (2Cro 35:25). Anche il nuovo patto annunciato da Geremia rientra in questa tipologia, perché attraverso di esso ci sarà una più efficace osservanza della legge di Mosè («metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore», 31:33). A Gesù, straordinario e conclusivo “re Figlio di Davide”, si addiceva proprio il promuovere col suo popolo un rinnovo del patto, non per cambiare i fondamenti della legge di Dio, ma per viverli in modo più profondo.
MT 5.5b. Il senso della domanda è che tra “primo” e “secondo”, “antico” e “nuovo” patto (Eb.7:22; 8:6-7,13; 9:18), non c’è menzione di “nuovi patti intermedi”, e questo ci aiuta a dare il giusto posto ed il giusto valore anche al “nuovo patto di Mosè” con la nuova generazione sulle pianure di Moab (Deut.28:69; 29:27), che non è certamente quello del “Nuovo Patto” profetizzato da Geremia.
MT 5.6. Se la teologia dei patti è una beffa, perché il NT parla di “patti” al plurale (Gal.4:24; Rm.9:4), marcando le differenze tra il “primo” ed il “secondo” patto?
DAF 5.6. Vedi 4.6 e il soprastante 5.5.
MT 5.7a. Se l’epistola ai Romani non è una novità con la sua esposizione di Paolo del “suo Vangelo” (Rm.2:16; 16:25; 2Tm.2:8), dove egli ci ha lasciato un’esposizione ordinata di quel Vangelo che ha ricevuto per “rivelazione” (Gal.1:12; 2:2) e che ha dovuto esporre con “timore di correre o di aver corso invano” (v.2) alle “colonne” della chiesa di Gerusalemme (v.9) e che altrove ha definito “il mistero del vangelo” (Ef.6:19), cioè quel “mistero che è stato fin dalle più remote età nascosto in Dio, il Creatore di tutte le cose” (Ef.3:9), “così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui” (v.5)?
DAF 5.7. Riporto in maniera più ampia Efesini 3:5-6: «Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui; vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo». Certo, il battesimo del non circonciso Cornelio (Atti 10), come la costituzione della chiesa di Antiochia composta da non circoncisi (Atti 11:19-25), rappresentarono delle novità che dovettero essere affrontate al massimo livello (Atti 15). Il rapporto fra Israele e i Gentili, come pure quello fra il Dio di Israele e i Gentili, si posero in modo nuovo e ci fu perciò una nuova rivelazione da parte di Dio; comunque si conosceva “qualcosa” anche prima, seppur non «così come» era stato poi rivelato agli apostoli.
Quel “qualcosa” che si conosceva prima non è che fosse poca cosa. Per esempio, quando Giona predicò nella pagana Ninive, i Niniviti si ravvidero e ristabilirono un buon rapporto con Dio sulla base di una “legge morale universale”. Non fu loro chiesto di circoncidersi, né di recarsi a Gerusalemme per compiere sacrifici animali. Paolo si comporterà poi con i Gentili in modo del tutto analogo a quello di Giona.
In Malachia, poi, di fronte ad un popolo di Israele che era arrivato a disprezzare il suo Dio, Dio si vanta che «dall’oriente all’occidente il mio nome è grande fra i Gentili; in ogni luogo si brucia incenso al mio nome e si fanno offerte pure; perché grande è il mio nome fra i Gentili» (1:11); un chiaro segno, questo, di quanto il culto del Dio di Israele si fosse già diffuso prima di Cristo. Ma c’è di più, dato che fra i circoncisi i “timorati di Dio” erano rimasti in pochi mentre si erano diffusi fra i non circoncisi, allora si stabilì un’alleanza di fatto fra tutti i timorati di Dio, circoncisi o non circoncisi che fossero: «Allora quelli che hanno timore del Signore si sono parlati l’un l’altro; il Signore è stato attento e ha ascoltato; un libro è stato scritto davanti a lui, per conservare il ricordo di quelli che temono il Signore e rispettano il suo nome» (Mal 3:16). Il battesimo dei non circoncisi che viene introdotto in Atti 10, allora, può anche essere visto come un riconoscimento formale di una sostanza già realizzatasi prima di Cristo.
MT 5.7b. Malachia 1:11 è il verso più discusso del libro e le divergenze interpretative hanno sempre impegnato sia cristiani che Giudei. Riporto quella che mi sembra più plausibile: “L’affermazione è iperbolica: al confronto del culto sacrificale profanato dai sacerdoti d’Israele a Gerusalemme, il sacrificio dei pagani offerto in qualsiasi altro luogo è puro” (Reventlow H.G.). Comunque, dire che “il battesimo dei non circoncisi che viene introdotto in Atti 10, allora, può anche essere visto come un riconoscimento formale di una sostanza già realizzatasi prima di Cristo”, mi sembra esagerato. Pietro fissa a Pentecoste “il principio” di quel tipo di esperienza (Atti 11:15) e lo vede come un adempimento di quanto detto da Giovanni Battista sul Battesimo dello Spirito Santo (v.16) e tutta la fratellanza ebraico cristiana che lo ascoltava gli ha dato ragione (v.18).
MT 5.8a. Se non c’è grande novità tra il ruolo dello Spirito Santo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, perché Gesù ha detto ai suoi discepoli di attendere il compimento della promessa riguardante lo Spirito (At.1:4-8) e perché Paolo parla del “nuovo regime dello Spirito”, distinto da quello “vecchio della lettera” (Rm.7:6), perché data temporalmente “la legge dello Spirito della vita” da quando Dio “ha mandato il proprio Figlio in carne simile a carne di peccato” (Rm.8:2-3), e a far data da ciò, associa tutta l’attività dello Spirito descritta in Romani 8?
DAF 5.8. Queste domande porterebbero quasi a concludere che nell’Antico Testamento lo Spirito Santo fosse assente, mentre abbiamo già visto (punto 4:8) che svolgeva un ruolo importante e simile a quello nel Nuovo Testamento, seppur su un numero di persone più limitato.
MT 5.8b. D’altro canto la tua risposta porterebbe a pensare che la presenza dello Spirito Santo nel Nuovo Testamento sia superficiale, più di ordine quantitativo che qualitativo. Propongo la seguente sintesi: anche nell’Antico Testamento lo Spirito Santo era presente e non dobbiamo liquidare il suo ruolo veterotestamentario troppo in fretta, tuttavia è nel Nuovo Patto che, secondo la profezia doveva raggiungere il culmine della sua azione e così è stato!
MT 5.9a. Se il concetto di Israele etnico è un errore, perché Paolo, parlando dei “miei parenti secondo la carne, cioè gli Israeliti”, dice che a loro “appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse ...” (Rm.9:3-4)? Come dovremmo considerare l’elezione d’Israele e tutte le profezie che lo riguardano e che ancora devono adempiersi?
DAF 5.9. Paolo aveva legami di sangue con alcuni, ma certamente non con tutto il popolo di Israele, che abbiamo visto (4.9) essere composto anche da persone di razza diversa. Il concetto di popolo non si collega necessariamente ad una “razza pura”. Il popolo di Israele non era rappresentato da un razza, ma da una fede, una cultura, una Terra Promessa, una missione universale, una storia.
Credo che la storia di Israele non possa concludersi senza un ristabilimento dell’armonia col suo Dio, come innumerevoli volte ribadito da Mosè e dai profeti. La forte crescita in Israele di Ebrei che riconoscono il Messia Gesù (cosiddetti “Ebrei messianici”), la simpatia sempre più evidente fra i “Cristiani per Israele” e lo Stato di Israele, l’evangelizzazione che con Internet può raggiungere pressoché tutti, mi spinge a pensare che ci stiamo rapidamente avvicinando alla “fine di questo mondo” e al varo della nuova Terra.
MT 5.9b. Qui il tuo discorso assume quella valenza che non esprimi al punto 4.9, ma che temevo avesse. Aggirare il concetto di un Israele etnico con l’argomento della “razza pura” mi sembra debole. Dio ha scelto Israele come nazione e ad esso ha legato delle promesse nazionali che avranno un compimento letterale. Il fatto che ne entrino a far parte elementi razziali diversi, come anche previsto dalla legge, non inficia questo progetto. Per il resto condivido il fatto che “la storia di Israele non possa concludersi senza un ristabilimento dell’armonia col suo Dio” e questo avverrà quando “essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio” (Zac.12:10).
MT 5.10a. Se noi troviamo la nostra vera identità stando con i fratelli ebrei, perché Gesù era ebreo (Gesù era anche maschio), perché questo non viene ribadito nell’insegnamento apostolico in modo normativo, ma anzi abbiamo raccomandazioni a prendere le distanze da un certo fermento giudaico (Col.2:16-19; Flp.3:2; Gal.6:12-16; 1Tm.1:5-11; Tt.1:10-11,13-14; 3:9; Eb.13:9)?
DAF 5.10. La chiesa di Antiochia era composta prevalentemente da non circoncisi (Atti 11:19-21), ma fu istruita da due Ebrei molto preparati, dato che Barnaba era un levita (aiutante dei sacerdoti nel Tempio) e Paolo era stato alla scuola del grande Gamaliele (Atti 4:36; 5:34; 11:19-26; 22:3). Le chiese dei Gentili crescevano accanto alle chiese di Ebrei e le più avevano una composizione mista. La vicinanza fra Gentili ed Ebrei era nei fatti. I primi segni di un orgoglio dei Gentili ci sono già nel Nuovo Testamento, al punto che Paolo invita a stare in guardia (Rom 11:18-20; 14:3), ma poi si manifesteranno in tutta la loro dirompenza, quando ci sarà la lunga guerra fra Roma e Gerusalemme, Gerusalemme sarà distrutta e gli Ebrei dispersi, con la conseguente sparizione di quelle chiese di Ebrei che, nel Nuovo Testamento, costituivano il punto di riferimento basilare. È in questo contesto che prende forma e avanza il “cristianesimo platonizzato” di Origene (185-253) che trasforma Gesù in un discepolo di Platone, poi arriva l’obbligo di uniformarsi ad una dottrina stabilita dalla commistione fra autorità politiche e vescovi ad essa graditi (Concilio ecumenico di Nicea, 325), l’introduzione del culto delle immagini e di quello dei santi, e via dicendo.
Noi cristiani di oggi siamo figli di questa storia, protestanti compresi, evangelici compresi. È vero che Lutero ha iniziato a riscoprire le origini del cristianesimo proclamando un ritorno alla Bibbia, ma credo che quello sia stato solo un primo passo ed espongo due ragioni: 1) Lutero ha mantenuto l’impostazione costantiniana con la conseguente sovrapposizione fra chiesa e società civile, continuando a battezzare i neonati e stabilendo un rapporto di protezione da parte dell’autorità politica; 2) essendo un frate agostiniano, aveva come riferimento il platonizzante Agostino, conservando un anti-ebraismo estremo che arrivò ad affermare: «Meglio essere un maiale che un Ebreo», «La nostra colpa verso gli Ebrei è di non averli ammazzati tutti»!
Certo anche oggi, come ai tempi apostolici, c’è il pericolo sia dei “giudaizzanti” che dei “paganeggianti”; occorre perciò essere vigili e attenersi alle indicazioni che troviamo nel Nuovo Testamento. Anche questo è un obiettivo del Movimento “Leggere & Intelligere”, dove già convivono “filo ebraici” e “anti giudaizzanti”, che si aiutano volentieri l’un l’altro al fine di mantenersi nei limiti della Parola di Dio.
MT 5.10b. È interessante questo ricorso alla teologia storica che in parte condivido, anche se ormai è diventato una sorta di passepartout per liquidare duemila anni di cristianesimo e propagandare la propria visione delle cose, ritenuta più rispondente all’originale. Questo fenomeno non è nuovo. Persino il giovane Bonhoeffer affermava nel lontano 1928: “lo spirito greco, il più grande nemico del cristianesimo da sempre… la dove domina lo spirito greco, il pensiero cristiano di Dio non viene capito. Lo spirito greco conduce alla mistica… la mistica e la buona novella, però, si escludono radicalmente l’un l’altra”. Il punto è che da questa critica radicale sono nate da qui scuole radicalmente opposte. Ma la mia era una domanda di natura esegetica e l’unica risposta di tale natura che si può dare è che non c’è niente nell’insegnamento apostolico che renda normativo ed identitario il nostro rapporto con “i nostri fratelli ebrei”. Talvolta mi par di leggere in filigrana in queste tue idee una sorta di strategia dove, da un lato relativizzi l’elezione nazionale ebraica estendendola oltre i confini territoriali e razziali e dall’altro la assolutizzi elevandola ad unica identità possibile per chi è discepolo di Gesù. Eppure, il progetto di Gesù portato avanti da Paolo, era quello di raggiungere “le estremità della terra” con un messaggio universale capace di raggiungere ogni popolo, lingua e nazione, quindi nel rispetto delle identità nazionali e razziali.
MT 5.11a. Se è vero che Dio ci giudica se non ci facciamo carico di Israele, perché questo non viene ribadito nell’insegnamento apostolico, in modo normativo, pur riconoscendo il ruolo di Israele nei piani di Dio?
DAF 5.11. Sappiamo che l’evangelizzazione dei Gentili fu opera principalmente di Paolo, che esortò a fare le cose che avevano viste in lui (Fil 4:9). E fra le varie cose che Paolo mostrava, c’era anche un amore per gli Ebrei increduli, per i quali era pronto a sacrificare la propria vita andando a testimoniare a Gerusalemme, pur sapendo che non ne sarebbe uscito libero (Atti 20:22-25; 21:10-13).
Da Atti 15 è chiaro che i Gentili non hanno nessun obbligo verso la legge di Mosè, ma solo di attenersi alla morale universale ricavabile dalla Genesi. Che noi Gentili non dobbiamo imitare goffamente gli Ebrei è fuor di dubbio, ma amarli ed essere riconoscenti è un altro discorso. Nel tempo apostolico non era nemmeno immaginabile che i cristiani potessero essere anti-ebraici e disprezzare quel popolo al quale appartenevano sia Gesù e sia quegli apostoli che li avevano evangelizzati!
MT 5.11a. Ciò che dici qui mi pare abbastanza condivisibile, tanto che suggerirei, al posto di un esempio implicito lasciato da Paolo, una sua esplicita ingiunzione rivolta ad una chiesa gentile: “Non date motivo di scandalo né AI GIUDEI, né ai Greci, né alla chiesa di Dio” (1Cor.10:32). Questa distinzione fra Giudei, Greci e chiesa di Dio, mostra il valore che Dio continua a dare all’Israele etnico nel novero delle nazioni, ma mostra anche l’equilibrio con cui dobbiamo trattare ciascuna di queste tre entità.
MT 6.1a. Venendo al discorso sul rapimento, di cui hai ulteriormente parlato in una successiva nota su facebook, hai ribadito che per rapimento intendi semplicemente l’incontro nell’aria tra Gesù e la sua chiesa a cui seguirà subito dopo la discesa gloriosa sulla terra. Ora, senza voler essere troppo dogmatici, non credi che questa sia in realtà una negazione del rapimento inteso come traslazione della chiesa dalla vista del mondo per un certo lasso di tempo, allorquando si svolgeranno la risurrezione e la trasformazione degli eletti, il tribunale di Cristo e le nozze dell’Agnello nel cielo? Non credi che questi eventi, che riguarderanno la chiesa rapita, richiedano un certo lasso di tempo?
DAF 6.1. Nel giugno scorso ho scritto una spiegazione della “Struttura fondamentale dell’Apocalisse”. Con Marco Distort, che ha scritto due libri sull’Apocalisse, abbiamo programmato di farci un Convegno insieme, constatando che le nostre vedute sono “complementari e convergenti”. Il Convegno è programmato a cavallo del primo ottobre prossimo a Chianciano (Siena) e lì sarà anche presentato il mio libro. Scusami se per una risposta adeguata alle tue complesse domande ti rinvio a quel Convegno ed a quel libro, mentre ora mi limito a confermarti che non credo che la chiesa sarà sottratta per un tempo alla vista del mondo.
MT 6.1b. Per quel che mi riguarda invece ribadisco di intendere il rapimento come la traslazione della chiesa dalla vista del mondo per un certo lasso di tempo, allorquando si svolgeranno la risurrezione e la trasformazione degli eletti, il tribunale di Cristo e le nozze dell’Agnello nel cielo.
MT 6.2a. Non credi che certi testi che paiono affermare una discesa senza variazioni del Cristo coi suoi, in realtà stiano contraendo i tempi come i profeti dell’AT hanno contratto i tempi e gli eventi relativi alle due venute del Messia?
DAF 6.2. I profeti dell’Antico Testamento contraevano i tempi per quegli avvenimenti lontani che non riguardavano i loro ascoltatori, i quali altrimenti sarebbero stati ingannati. I profeti di un certo periodo, insomma, confidavano che una descrizione più precisa degli avvenimenti lontani sarebbe poi stata precisata dai profeti che sarebbero sorti in prossimità di quei tempi. Nel Nuovo Testamento si riteneva possibile un ritorno di Cristo entro quella generazione (per es. 1Tes 4:15), perciò questo principio è poco applicabile.
MT 6.2b. L’argomento della contrazione temporale delle due venute del Messia fatta dai profeti dell’AT non serve come argomento pro-rapimento, ma per spiegare il silenzio profetico in merito al rapimento, e mostrare che tale silenzio non è utilizzabile come argomento contro il rapimento. La giustificazione che dai della contrazione temporale nell’AT non mi convince del tutto, se non nel fatto che effettivamente il rapimento non li riguardava, perché riguardava la chiesa (1Ts.4:13-18) e quindi era un “mistero” (1Cor.15:51-53 cfr. Col.1:25-26).
MT 6.3. Non credi che citare brani dei Vangeli per affermare che Cristo torna e basta, senza ulteriori distinzioni di tempi, fasi ed eventi, non è corretto da un punto di vista esegetico, visto che la luce profetica in cui si muovevano prima di pentecoste era ancora incompleta e contratta, e che, secondo le parole di Cristo, uno dei ruoli dello Spirito sarebbe stato proprio quello di annunziare “le cose a venire” (Gv 16:12-13)?
DAF 6.3. Sono d’accordo a tal punto che diversi anni fa ho scritto un’escatologia del Nuovo Testamento partendo proprio dagli apostoli e per gli stessi motivi che tu indichi (“Profezie facili degli apostoli Pietro e Paolo”). Quei testi profetici dei Vangeli che nelle varie occasioni cito di più, sono la parabola delle zizzanie e il ritorno in gloria di Gesù (Mat 13:36-43; 25:31-34), dove viene usato un linguaggio molto semplice, rivolto a persone semplici e perciò da comprendere secondo un semplice senso comune.
Tutt’altra cosa è il discorso escatologico di Gesù (Mat 24), dove viene usato un linguaggio apocalittico: è un testo molto difficile e il concetto di “contrazione profetica” potrebbe effettivamente essere di aiuto. Recentemente ne ho esposto a voce un’interpretazione nella quale mi avvalgo di certi schemi utilizzati dai profeti dell’Antico Testamento… prima o poi spero di scriverci qualcosa, ma per il momento mi fermo qui.
Caro Tonino, per finire ti ringrazio per il grande servizio di chiarezza che hai fatto, elevando il dialogo su un piano più consono al nostro professarci cristiani. Considero il tuo lavoro come una tappa importante sulla quale intanto soffermarsi, per poi eventualmente ripartire con altri percorsi, che proseguano con lo stesso atteggiamento fraterno.
MT 6.3b. Credo che sia stato utile varare questa “Appendice dialettica alla Conferenza”, nata in
quest’ambito e per quest’ambito, che ha dato ad entrambi e a chi ci legge la possibilità di chiarire le nostre rispettive posizioni, che restano distanti, come due treni che corrono in parallelo, ma verso “conclusioni” teologicamente diverse. Con questo “dialogo” abbiamo cercato di interfacciarci dai vari finestrini e vagoni della nostra rispettiva locomotiva teologica e, per non perdere il contatto abbiamo fatto un tratto camminando forse in senso opposto alla nostra direttrice di marcia, ma poi dobbiamo prendere atto che, parafrasando Bonhoeffer, “non serve a molto correre nel corridoio di un treno in senso opposto alla sua direzione di marcia”, ognuno continuerà a seguire QUELLA direzione di marcia! Il discorso si fa così più ampio e risponde alla domanda di fondo: qual è la nostra direttrice di marcia?
Qual è la destinazione delle nostre “conclusioni”? Ma la “pretesa” di quest’Appendice era squisitamente esegetica e qui mi fermo!