DIALOGHI SULLA LETTERA AI ROMANI. Una teologia di Paolo interna all’Antico Testamento

DIALOGO 23 BOZZA 1 (25/1/25)

di Fernando De Angelis (il file dei Dialoghi 23-27 è scaricabile dal Dialogo 27)

PRINCIPI GENERALI DI UN’ETICA CRISTIANA  (12:1-8)

1. Il primo versetto come titolo per i capitoli 12-15 (12:1).

«Io vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, che è il vostro culto spirituale» (12:1).

Il “culto” è un modo di rendere onore a Dio e Paolo, dopo aver esposto quello che Dio ha fatto per noi (capitoli 1-11), vuole ora delineare quale dovrebbe essere la nostra adeguata risposta (capitoli 12-15). Partendo come al solito da una sintesi di ciò che poi vuole esprimere, esorta a presentare i nostri corpi «in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio». Un linguaggio che richiama alla memoria l’olocausto (vedere Levitico 7:1). In altri sacrifici veniva mangiata almeno parte della vittima (per esempio, l’agnello pasquale), mentre nell’olocausto veniva tutta bruciata.

C’è perciò una simmetria: Dio ha fatto per noi il massimo, donandoci il suo unico Figlio Gesù (8:32), perciò chi accoglie quell’amore non può rispondere in modo parziale. Come nel matrimonio, l’amore non può sussistere se non c’è uguale corrispondenza. La motivazione non è perciò retributiva (cioè amare Dio per averne una ricompensa), ne può essere sufficiente un senso del dovere, ma come Paolo precisa: «Per le compassioni di Dio».

D’altronde il nostro non deve essere un normale sacrificarsi, ma un «sacrificio VIVENTE». Un’espressione che può apparire contraddittoria, ma sintetizza quanto già scritto in 6:11-13: «Fate conto di essere morti al peccato, ma viventi a Dio, nel Messia Gesù. Non regni dunque il peccato nel vostro corpo mortale per ubbidirgli […] ma presentate voi stessi a Dio come di morti fatti viventi e le vostre membra come strumenti di giustizia a Dio». Mentre in Galati 2:20 così Paolo descrive il suo essere un «sacrificio vivente»: «Sono stato crocifisso con il Messia, non sono più io che vivo, ma è il Messia che vive in me e la vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me». Paolo qui non parla di regole e di doveri, ma si era sentito personalmente amato da Gesù e desiderava corrispondere in modo simile, cogliendo pienamente quel privilegio.

Che significa culto «SPIRITUALE»? Non pochi ne deducono che nel nostro culto devono essere coinvolti pensieri e sentimenti, ritenendo che «spirituale» sia contrapposto a «materiale». La traduzione di base che usiamo, cioè la Nuova Riveduta, rimanda alla seguente nota: «Spirituale, letteralmente razionale». Confessando così di aver stravolto il senso letterale che era presente nella precedente traduzione di Diodati, perché «razionale» significa «approvato dalla ragione umana, ragionevole». La TILC ha «culto che gli dovete», mentre Bianchi traduce «culto conforme alla vostra natura razionale».

Insomma, è uno dei vari tentativi di piegare la Bibbia al dualismo platonico, che disprezza la materialità, mentre la visione ebraica valorizza ugualmente le due parti dell’uomo: quella materiale e quella non materiale (olismo ebraico). Come d’altronde si può vedere nel coinvolgimento del corpo fatto in questo stesso versetto, come pure in 6:11-13 e in Galati 2:20 citati poco sopra.

Particolarmente significativo è quanto Paolo scrive in 1Tessalonicesi 5:23: «Il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile, per la venuta del Signore nostro Gesù Messia». Il corpo è ciò che ci accomuna alla terra, dato che Dio lo ha formato da quella (Genesi 2:7), l’anima è quella sensibilità che ci permette di comunicare con un animale (chiamato così perché gli si riconosce un’anima), mentre lo spirito è quella esclusività umana che ci permette di relazionarci con Dio. Per Paolo, dunque, L’INTERO nostro essere deve essere UGUALMENTE santificato.

2. Partire dalla mente e arrivare all’esperienza(12:2).

Non conformatevi a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà (12:2).

La fede comincia partendo dalla nostra mente. Certamente non per fermarsi lì, ma per coinvolgere poi tutto il nostro essere. Come abbiamo appena visto e come si può ricavare da questo stesso versetto, nel quale il rinnovamento della mente si traduce poi in ESPERIENZA.

Il credere, insomma, più che uno studio teologico è un cammino di vita, nel quale realizzare praticamente quanto la volontà di Dio sia per noi «buona, gradita e perfetta». Riaffermando che fare la volontà di Dio non è un “sacrificarsi”, ma un privilegio.

3. La Chiesa come corpo del Messia (12:3-8).

Per la grazia che mi è stata concessa, io dico quindi a ciascuno fra voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura della fede che Dio ha assegnata a ciascuno. Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno la medesima funzione, così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo nel Messia e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro. Avendo pertanto doni differenti secondo la grazia che ci è stata data, se abbiamo dono di profezia, profetizziamo secondo la proporzione della nostra fede; se di ministerio, attendiamo al ministerio; se d’insegnamento, all’insegnare; se di esortazione, all’esortare; chi dà, dia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le faccia con gioia (12:3-8).

In 6 versetti Paolo sintetizza un insegnamento sui doni e sul fatto che i credenti formano un solo corpo nel Messia. Mentre nella 1Corinzi dedica a questi argomenti 3 capitoli (12-14), come abbiamo visto nel volume precedente. Sono concetti semplici da comprendere e molto insegnati nelle chiese, perciò non ci dilunghiamo.

L’espressione iniziale è un po’ enigmatica: «Per la grazia che mi è stata concessa, io dico…». Diviene però chiara più avanti, quando la applica a tutti: «Avendo pertanto doni differenti secondo la grazia che ci è stata data…». I doni che Dio fa ai credenti sono una grazia. A Paolo era stato fatto il dono/grazie di insegnare ed è su quella base che si rivolgeva agli altri. Paolo insegnava con l’esempio, perciò ha applicato prima a sé quell’invito che fatto poi agli altri.

Avere «un concetto sobrio» di sé non è facile, perché possiamo cadere nell’orgoglio o nella disistima di noi stessi. Dobbiamo invece vederci “con gli occhi di Dio”, prendendo coscienza del dono che ci ha fatto, per esercitarlo in armonia con i doni ricevuti dagli altri. 

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