DIALOGHI SULLA LETTERA AI ROMANI. Una teologia di Paolo interna all’Antico Testamento

DIALOGO 19 – BOZZA 1 (6/1/25)

di Fernando De Angelis

UNA PARENTESI PIÙ ESPLICITAMENTE EVANGELISTICA (10:1-17)

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Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera a Dio per loro è che siano salvati. Io rendo loro testimonianza infatti che hanno zelo per Dio, ma zelo senza conoscenza (10:1-2).

È evidente la solita impostazione ciclica, nella quale si ampliano e si arricchiscono i temi già espressi, mantenendone costante la cornice. In questo inizio del capitolo 10, infatti, Paolo riprende quanto già condiviso in 9:1-5, cioè il suo dolore per il rifiuto del Messia da parte di Israele.

«Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio; poiché Cristo è il termine della legge, per la giustificazione di tutti coloro che credono» (10:3-4).

Si accenna di nuovo ad una giustizia di Dio per mezzo del Messia rivolta a TUTTI, richiamando quanto già espresso in 3:21-30 e che sarà ribadita subito dopo (10:12). L’unità dei capitoli 1-11 sarà comunque più chiara alla fine del capitolo 11.

Ci soffermiamo sulla significativa affermazione nella quale si mette in relazione la legge con la grazia. Il Messia viene definito come «il termine della legge»; altri traducono con «il fine» (Concordata, Bianchi), o «lo scopo e la fine» (TILC). L’espressione è un po’ enigmatica, ma anziché analizzarla, è preferibile andare alla Lettera ai Galati, dove Paolo si esprime in modo più ampio ed esplicito: «La legge è stata data come un precettore [educatore del giovane] per condurci al Messia, affinché noi fossimo giustificati per fede» (Galati 3:24).

Già in Romani 7, comunque, Paolo aveva considerato la legge non come un mezzo di salvezza, ma come uno specchio che fa vedere meglio il peccato (7:7-23), suscitando il desiderio di una liberazione per mezzo di Gesù (7:24-25).

«Infatti Mosè descrive così la giustizia che viene dalla legge: “L’uomo che farà quelle cose vivrà per esse”. Invece la giustizia che viene dalla fede dice così: “Non dire in cuor tuo: ‘Chi salirà in cielo?’ (questo è farne scendere il Messia), né: ‘Chi scenderà nell’abisso?’ (questo è far risalire il Messia dai morti)”. Che cosa dice invece? “La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore”. Questa è la parola della fede che noi annunciamo» (10:5-8).

Se la legge fa sentire il bisogno della grazia, allora la grazia non può arrivare secoli dopo la legge, ma legge e grazia devono essere CONTEMPORANEE. Chi pone la legge nell’Antico Testamento e la grazia nel Nuovo, evita di considerare che Paolo illustra le due giustizie con citazioni tratte ambedue da Mosè, cioè da Levitico 18:5 e da Deuteronomio 30:12-14.

«Perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: “Chiunque crede in lui, non sarà deluso”. Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci? E come annunceranno se non sono mandati? Com’è scritto: “Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!” Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: “Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?” Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola del Messia Cristo» (10:9-17).

Il compito più importante che Paolo sentiva di dover svolgere era quello di evangelizzatore, come scriverà avviandosi a concludere: «Avendo l’ambizione di predicare il vangelo là dove non era ancora stato portato il nome del Messia, per non costruire sul fondamento altrui» (15:20). E Altrove: «Il Messia non mi ha mandato a battezzare, ma a evangelizzare» (1Corinzi 1:17). Non è perciò strano che, in questi versetti, Paolo apra una parentesi più esplicitamente evangelistica, anche se in fondo tutta la Lettera è evangelistica. Sorvoleremo sui vari dettagli, soffermandoci solo sulle due citazioni fatte nei versetti 13 e 15.

«Chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato» (versetto 13). Il contesto indica chiaramente che Paolo, per “Signore”, intende il Messia Gesù, citato esplicitamente all’inizio e alla fine del brano (versetti 9 e 17). Paolo rievoca Gioele 2:32, dove è scritto: «Chiunque invocherà il nome di JAVÈ sarà salvato». Un’espressione simile si trova pure nel Salmo 32:6: «Ogni uomo pio t’invochi mentre puoi essere trovato»; anche in questo caso l’invito è ad invocare JAVÈ, nominato nel versetto precedente. Insomma, si tratta di uno dei diversi casi nei quali viene applicato a Gesù qualcosa che nell’Antico Testamento si riferiva a Javè. Uno schema che spesso usano i cristiani è che Gesù invita a fare diversamente, rispetto all’Antico Testamento. Mentre lo schema di Paolo è che ora basta invocare Gesù perché già prima bastava invocare Javè.

«Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!» (versetto 15). È una citazione di Isaia 52:7. Paolo stava scrivendo in greco e cita l’Antico Testamento nella versione greca. “Buona notizia” e “Vangelo” traducono la stessa parola greca, che viene resa in due modi diversi non solo in base al contesto, ma anche per avallare una concezione esagerata della novità del Vangelo. Per gli apostoli e loro lettori, invece, “Vangelo” non era una parola nuova, perché già introdotta da Isaia in uno specifico contesto. È significativo che Gesù, nella sinagoga di Nazaret (Luca 4:16-22), legga Isaia 60:1,cioè uno di quei passi che parla della “buona notizia/vangelo”. Per comprendere meglio il significato di “Vangelo”, bisognerebbe allora aver prima acquisito il senso che gli dà Isaia, in particolare in 40:9-11.