Dialoghi sul Vangelo di Matteo. Chianciano (Siena), 1-3 nov 2019

SCHEMA DEI TEMI INTRODOTTI DA FERNANDO DE ANGELIS

scarica questo file sulle tesi.

Dialogo 1. Complessità dei Vangeli scritti e semplicità del Vangelo predicato in Atti.

Dialogo 2/A. Il Vangelo di Matteo presuppone la conoscenza dell’Antico Testamento.

Dialogo 2/B. I nomi di Gesù.

Dialogo 3/A. Rapporto fra profezie e storia.

Dialogo 3/B. Nell’Antico Testamento, prima e seconda venuta del Messia sono unite.

Dialogo 4/A. Fino a Matteo 10, il regno dei cieli è quello annunciato da Daniele.

Dialogo 4/B. Le profezie dell’AT non erano applicabili a Gesù in modo esclusivo e oggettivo.

Dialogo 5/A. L’avvento del regno dopo la morte del Messia era scandaloso per tutti.

Dialogo 5/B. Con le parabole (cap. 13) non si entra più nel regno, ma è il regno che entra in noi.

Dialogo 6. Accessibilità dei Discorsi profetici (capp. 23-25), ma con adeguate precomprensioni.

Dialogo 7/A. Il cap. 23 come bussola e come messaggio a QUELLA generazione.

Dialogo 7/B. La sintesi finale di Matteo: il Messia è venuto e non è mai andato via (28:18-20).

Dialogo 1. Complessità dei Vangeli scritti e semplicità del Vangelo predicato in Atti.

Ciascuno dei quattro Vangeli riassume la vita pubblica di Gesù avendo presente un determinato uditorio: Ebrei (Matteo), Romani (Marco), Greci (Luca), Chiesa (Giovanni). Anche le predicazioni riportate in Atti sono adattate all’uditorio, ma Dio ne ha imposta una riduzione sempre più drastica.

Nella prima predicazione a Pentecoste, Pietro cercò di fare un discorso completo, collegando Gesù all’Antico Testamento, ma il tutto è concentrato in meno di un capitolo e a un presumibile tempo di circa un’ora. Chi accettò il messaggio di Pietro venne subito battezzato, ricevette lo Spirito Santo ed entrò a far parte della Chiesa (Atti 2:14-41).

Pietro voleva fare un ampio discorso anche al centurione romano Cornelio, ma Dio lo interruppe quando aveva «appena cominciato a parlare» (Atti 11:15). A Cornelio e ai suoi amici bastò infatti sapere che, attraverso Gesù, si aveva il perdono dei peccati. Ricevettero così lo Spirito Santo, furono subito battezzati pur essendo incirconcisi (primo caso) ed entrarono a far parte della Chiesa (Atti 10:43-48).

Anche l’istruzione di Filippo all’Eunuco fu bruscamente interrotta da Dio e così l’Eunuco si ritrovò a essere il primo missionario in terra d’Africa, pur avendo un minimo di conoscenza (Atti 8:26-40).

È sensato pensare che bisognerebbe essere ben preparati, prima di far parte della Chiesa. L’apparente “pazzia” di Dio, invece, è di salvare subito i perduti e poi istruirli all’interno della sua casa. Paolo aveva ben assimilato questa logica, perciò con i filosofi ateniesi si dilungò prima sulla loro cultura, limitandosi poi a definire Gesù come un «uomo» che giudicherà il mondo e che è risuscitato (Atti 17:22-31). Paolo arrivò all’estremo con il carceriere di Filippi, il quale chiese: «Che debbo fare per essere salvato?». Rispose: «Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato tu e la tua famiglia»; battenzandoli subito dopo (Atti 16:30-33).

Paolo restò a Corinto quasi due anni (Atti 18:11,18): un tempo ancora insufficiente per passare dal «latte» al «cibo sodo» (1Cor 3:1-2). Il Nuovo Testamento insegna che il primo traguardo urgente è la salvezza, ma che poi è ugualmente urgente e necessario proseguire verso la maturità: ottenibile solo passando dalla Parola ascoltata alla Parola letta e compresa nella sua completezza.

Dialogo 2/A. Il Vangelo di Matteo presuppone la conoscenza dell’Antico Testamento.

Abbiamo visto che si può essere salvati sapendo molto poco di Gesù, ma non è possibile arrivare ad avere con lui una sintonia profonda, se non si prende atto della sua ebraicità e dal suo essere il Messia annunciato dai profeti. È il Vangelo di Matteo che collega il Nuovo Testamento all’Antico, ma per comprendere Matteo bisogna aver prima sufficientemente assimilato l’Antico Testamento.

Paolo avvertì quelli di Corinto che il libro dell’Esodo non riguardava solo il passato, ma era applicabile a loro stessi e facevano bene a non ignorarlo (1Cor 10:1-11). Quelli di Berea sono spesso elogiati perché «ricevettero la Parola con ogni premura, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così» (Atti 17:11). Spesso però si trascura che le Scritture da loro esaminate erano l’Antico Testamento!

Dialogo 2/B. I nomi di Gesù.

Nell’usare il nome “Gesù Cristo” la cristianità mostra già qualche segno delle sue deviazioni. Prima di entrare nel merito, bisogna considerare che Dio aveva già preparato il passaggio dall’ebraico al greco. Più di un secolo prima di Gesù (cioè verso il 120 a.C.) era stata infatti completata la traduzione dell’Antico Testamento in greco, detta dei Settanta, che era già divenuta prevalente anche nelle sinagoghe, specie al di fuori della Giudea. Il Nuovo Testamento veniva perciò letto come una prosecuzione dell’Antico Testamento in greco. Ne deriva che molte parole del Nuovo Testamento avevano il significato dato loro dalla Settanta.

Per esempio, Gesù e Giosuè sono lo stesso nome e non si dovrebbe nasconderlo, traducendo diversamente i due nomi. Gesù/Giosuè era un nome molto diffuso ed era perciò percepito non come appartenente a una persona unica, ma come quello di un normale essere umano. Filippo disse a Natanaele: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Giosuè da Nazaret, figlio di Giuseppe» (Giov 1:45). Gesù iniziò con il presentarsi in vesti pienamente umane, aggiungendo solo in seguito e progressivamente la rivelazione della sua divinità (senza con ciò mai sminuire la sua umanità, ma questo è un altro discorso).

Nell’usare “Cristo” la manipolazione è più evidente, perché è la traduzione greca dell’ebraico “Messia” e in italiano sarebbe “Unto”. Indicava quel particolare discendente di Davide che sarebbe stato “Unto come re”. Se oggi usiamo “Unto” ci capiscono pochi, mentre “Messia” è più facilmente percepito come un personaggio profetizzato nell’Antico Testamento. La mia scelta è di usare “Gesù Messia”, evitando l’uso di “Cristo”. Va sempre più di moda il nome ebraico Yeshua Hamasiach, ma lo ritengo contrario al Nuovo Testamento, dove non è mai usato e dove Dio, da Atti 2:8 in poi, ha voluto far ascoltare il Vangelo nella lingua nativa. Vediamo il significato di altri tre nomi di Gesù.

-“Figlio di Davide”. Significava erede del regno di Davide ed equivaleva a Messia.

-“Figlio di Dio”. Nei Vangeli sinottici, è pressoché sinonimo a “Figlio di Davide”. Perché Dio aveva elevato Salomone, e perciò la sua stirpe, a suo figlio adottivo (1Cro 17:11-14; cfr. Salmo 2).

-“Figlio dell’uomo”. Si riallacciava a quell’uomo straordinario profetizzato in Daniele 7:13-14, che avrebbe dominato tutto il mondo e per sempre. Un re in qualche modo “divino”. Nessuno ha osato indicare Gesù come “Figlio dell’uomo”, ma è solo Gesù a dirlo di se stesso.

Dialogo 3/A. Rapporto fra profezie e storia.

Il tema è molto complesso, perciò cercheremo di dare solo un chiarimento iniziale. In Michea 3:12 è profetizzata chiaramente la catastrofe: «Per causa vostra, Sion sarà arata come un campo, Gerusalemme diventerà un mucchio di rovine e il monte del tempio un’altura boscosa». Eppure, circa un secolo dopo, per Geremia la catastrofe era ancora evitabile (Ger 4:14; 6:8). Giona profetizzò che Ninive sarebbe stata distrutta dopo 40 giorni. I Niniviti ebbero fiducia nel perdono e Dio cancellò la profezia. Perché le profezie negative sono annunciate nella speranza che non si realizzino, mentre quelle positive Dio le manda comunque a effetto, prima o poi, in un modo o nell’altro.

L’atteggiamento di Paolo sulle profezie è chiaramente espresso in un episodio di grande chiarezza, ma poco usato a questo scopo. In Atti 27:20-44 è raccontato come la nave che lo stava portando a Roma stesse per affondare, ma Paolo riferì a tutti che Dio voleva salvarli. Alcuni marinai, però, manifestarono di non credere a quella promessa e allora Paolo avvertì che quel comportamento avrebbe annullato la profezia. Quella manifesta mancanza di fede cessò, così poi Paolo disse: «Vi esorto a prendere cibo, perché questo contribuirà alla vostra salvezza; e neppure un capello del vostro capo perirà». Finì che «tutti giunsero salvi a terra». La profezia andò in porto, ma non per questo fu annullata la responsabilità e la collaborazione umana. La storia ha le sue regole, di fronte alle quali anche le profezie cedono il passo!

Il Vangelo di Matteo racconta una storia vera, non un meccanismo a orologeria con protagonisti finti, somiglianti a burattini manovrati da Dio!

Dialogo 3/B. Nell’Antico Testamento, prima e seconda venuta del Messia sono unite.

Basta un minimo di conoscenza biblica per sapere che, nell’Antico Testamento, la prima e la seconda venuta del Messia sono messe insieme, come due catene montuose viste da lontano. L’opera del Messia è descritta come se facesse tutto alla sua prima e unica venuta. Se ne dovrebbe trarre una conseguenza inevitabile, cioè che Gesù sembra che NON abbia realizzato le profezie dell’Antico Testamento sul Messia. Perché se ci promettono una casa entro un certo tempo e poi ci consegnano solo le fondamenta, rinviando il resto a non si sa quando, allora la promessa NON è stata mantenuta.

Nel testo di Isaia 61:1-3 non si scorge nessun segno di discontinuità. Quando Gesù ha iniziato a leggerlo nella sinagoga di Nazaret (Luca 4:18-20) si è però fermato alla prima parte del v. 2, annunciando la realizzazione della profezia di Dio su «l’anno di grazia di Javè». Evitando di proseguire con la seconda parte, dov’è annunciato «il giorno di vendetta del nostro Dio». Nessuno poteva sospettare che le due parti del v. 2 sarebbero state separate da almeno duemila anni! Matteo affronta questo problema chiarendo che Gesù non ha realizzato subito quanto atteso perché quelle profezie erano condizionate dall’accettazione del Messia da parte di Israele. Spesso è però difficile capire il Vangelo di Matteo, perché il problema del contrasto fra comprensione delle profezie e adempimenti di Gesù viene rimosso e ignorato!

Dialogo 4/A. Fino a Matteo 10, il regno dei cieli è quello annunciato da Daniele.

In Daniele 7:17-18 è scritto: «Queste quattro grandi bestie sono quattro re che sorgeranno dalla terra; poi i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre». Il “regno dei santi” avrà come re un «figlio d’uomo», fatto salire sulle nuvole del cielo per presentarsi davanti a Dio, dal quale riceve «dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto» (Dan 7:13-14). Un’altra profezia essenziale di Daniele (9:24), aveva fissato l’avvento del regno dei santi a circa cinque secoli dopo (“settanta settimane”, cioè 490 anni)… e il Battista predicò proprio a circa cinque secoli di distanza da Daniele, con un messaggio che per i contemporanei era inequivocabile: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». È evidente che “regno dei cieli”, “regno dei santi” e “regno di Dio” siano sinonimi.

Siccome per entrare nel regno dei cieli bisognava essere in sintonia con Dio, allora Giovanni invitò a mettere a posto la propria vita, testimoniando questo atteggiamento interiore con il lavarsi nell’acqua, secondo uno schema ampiamente presente nella legge di Mosè (per es. Eso 30:17-21; Lev 17:15-16).

Forse Giovanni invitava a ravvedersi subito perché sarebbe arrivato il regno di Dio dopo qualche millennio? Gesù si identificò con Giovanni non solo facendosi battezzare da lui, ma annunciando lo stesso messaggio (Mat 4:17), incaricando poi gli apostoli di fare altrettanto (Mat 10:7).

Non erano perciò gli ebrei ad avere eccessive aspettative politiche collegate con il Messia, perché erano state chiare profezie a giustificarle. Piuttosto che negare l’evidente significato dell’annuncio iniziale fatto da Giovanni e da Gesù, bisogna prenderne atto, vedendo come Matteo racconta il cambiamento.

Dialogo 4/B. Le profezie dell’AT non erano applicabili a Gesù in modo esclusivo e oggettivo.

È facile imbattersi in elenchi di profezie dell’Antico Testamento che si sarebbero realizzate nel Nuovo, ma è altrettanto facile essere indotti in errore. Nel suo senso più comune, con “profezia” si intende un fatto chiaramente annunciato in anticipo e del quale si può poi controllarne obiettivamente la realizzazione. Nell’ebraismo, però, il concetto di profezia è molto più ampio. Matteo, per esempio, non fa una netta distinzione fra storia e profezia, perché Dio resta lo stesso e la sua parola «dura per sempre» (Isa 40:8). Tutto l’Antico Testamento è perciò ritenuto profetico, anche le parti storiche, ma profetico come Matteo lo intende. Se perciò andiamo a valutare quelle profezie con il nostro criterio di “oggettività razionale”, si arriva alla conclusione che nemmeno una può essere ritenuta tale.

In Osea 11:1 è scritto: «Fuor d’Egitto chiamai mio figlio». Matteo la considera come profezia del soggiorno in Egitto di Gesù (2:15). Secondo la nostra logica, però, il contesto non permette una tale applicazione, come si può vedere riportando anche la precedente frase di Osea: «Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio figlio fuori d’Egitto». Matteo sembra allora aver operato un falso, mentre in realtà usa una logica diversa dalla nostra, perché parte dal presupposto di una identificazione fra Israele e Gesù, cioè fra Israele e il suo re. Il rapporto fra Gesù e Dio Padre, perciò, lo vede già adombrato in quello fra Israele e Dio. Infatti più volte Israele è considerato da Dio come suo “figlio” (Eso 4:22; Deu 1:31; 8:5; 14:1; Ger 3:14; 31:9,20). Israele è stato un figlio spesso disubbidiente, riscattato dal figlio ubbidiente Gesù, per mezzo di quella “solidarietà fra fratelli” già espressa da Giuseppe (Gen 37-45): un eroe che Stefano implicitamente indica come anticipatore di Gesù (Atti 7:9-14).

5/A. L’avvento del regno dopo la morte del Messia era scandaloso per tutti.

Il capitolo 53 di Isaia è ORA PER NOI chiarissimo, ma prima di Gesù non era affatto evidente che il “servo sofferente” di Isaia 53 fosse la stessa persona del “re glorioso” annunciato in molte altre parti. Anzi, che si trattasse della stessa persona era così difficile da pensare che gli apostoli non riuscirono a capirlo nemmeno dopo tre tentativi di spiegazione di Gesù (Luca 9:22; 9:44-45; 18:31-34). Leggendo il racconto della sua crocifissione a noi viene spontaneo pensare: «Tanto risorge subito». Tutti i suoi discepoli, invece, rimasero disorientati.

Solo dopo un certo tempo Gesù comunicò chiaramente agli apostoli che sarebbe morto e Pietro non la prese bene: «Dio non voglia, Signore! Questo non ti avverrà mai» (Mat 16:22). Anche il Battista notò un cambio di strategia in Gesù e proprio lui, ritenuto come “testimone chiave” (Mat 3; Giov 1:6-37), cominciò a non essere più sicuro che Gesù fosse veramente il Messia promesso! (Mat 11:3).

Le profezie su Gesù, e il senso dei suoi tre anni di impegno pubblico, divennero sostanzialmente comprensibili ai suoi discepoli solo dopo la sua risurrezione (Luca 24:25-32). Gli apostoli lasciarono il loro lavoro (cfr. 4:18-22; 9:9) evidentemente convinti che Gesù/Giosuè sarebbe passato di vittoria in vittoria, come il successore di Mosè. Poi sono però subentrate alcune perplessità, poi la crocifissione, la risurrezione, l’ascensione e la discesa dello Spirito Santo. Con la necessità di ripensare il tutto a ogni tappa e una comprensione di Gesù stabilizzatasi solo dopo il consolidarsi della moltiplicazione dei discepoli, cioè dopo i primi capitoli degli Atti.

5/B. Con le parabole (cap. 13) non si entra più nel regno, ma è il regno che entra in noi.

Gesù si rese conto che la maggior parte di Gerusalemme, della Giudea e dei capi avevano rifiutato il messaggio di Giovanni e perciò il regno di Dio. Per questo decise di concentrarsi nella periferica Galilea, sperando di iniziare da lì a instaurare il regno (Mat 4:12; Giov 4:1-3; 7:1).  A un certo punto dovette però constatare che anche la maggior parte dei Giudei di Galilea aveva rifiutato il regno (Mat 11:20-24).

C’erano allora due possibilità: ripetere la strategia del Diluvio, sterminando quasi tutti per ricominciare da pochi, oppure accettare di morire confidando in un successivo ravvedimento di molti, secondo quella profezia in Zaccaria 12:10 che dice: «Guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico». La storia raccontata negli Atti e quella fino a oggi, mostrano che le speranze di Gesù non sono andate deluse. Perché anche se la maggioranza dell’umanità ha continuato a rifiutarlo, oggi ci sono centinaia di milioni di persone che hanno imboccato la «via stretta» di Gesù e, come da lui desiderato, sono presenti «fino all’estremità della Terra» (Atti 1:8).

Il cambio di strategia si esplicita con le parabole e non era spiegabile alle folle che si avvicinavano a lui per la prima volta o superficialmente, perciò Gesù cominciò a evitarle, concentrandosi sempre più nel far comprendere e nel preparare i discepoli. La differenza essenziale fra le due prospettive è che non ci si deve più preparare per entrare nel regno, perché la sua piena venuta è rinviata alla fine dei tempi. Bisogna invece prepararsi a far entrare in noi il «seme» del regno.

Gesù ha esposto la nuova prospettiva in modo chiaro e sintetico nella parabola delle zizzanie, integrata dalle altre due adiacenti (quella del seminatore e del granello di senape, Mat 13:1-32). Chi però ha una sua visuale e non vuole cambiarla, tende a sorvolare il significato della parabola delle zizzanie. In essa (Mat 13:24-30; 36-43) Gesù afferma di essere il Messia promesso e di aver portato il regno, nella forma di seme che si svilupperà nei suoi discepoli, che dovranno però convivere con i malvagi. La pienezza del regno si avrà al suo ritorno, quando i malvagi saranno eliminati dalla Terra. La potenza del seme del regno si può ben cogliere nel libro degli Atti.

6. Accessibilità dei Discorsi profetici (capp. 23-25), ma con adeguate precomprensioni.

Gesù ha parlato a persone che conoscevano l’Antico Testamento e per me è stato decisivo averne fatto il riassunto. Particolarmente utile è stato il libro di Geremia. Se lo esaminiamo con i nostri soliti schemi, ne concludiamo che è stato un falso profeta… o che i nostri presupposti interpreattivi non sono adeguati. Geremia profetizzò alla vigilia della distruzione del primo Tempio, non è perciò strano che Gesù utilizzi un’impostazione simile, trovandosi alla vigilia della distruzione del secondo Tempio.

Anche la comprensione del libro di Daniele ha comportato una profonda revisione del mio approccio. Gesù ha detto: «Come fu ai giorni di Noè, così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo» (Mat 24:37), vedendo il futuro sulla base della storia. Nell’insieme dei Discorsi profetici è evidente un’altra applicazione, così riassumibile: «Come è stato alla mia prima venuta descritta da Daniele, così si succederanno le fasi che precederanno la mia seconda venuta». L’Antico Testamento mi aveva reso comprensibile l’Apocalisse, che può considerarsi come un commento ai Discorsi profetici. Solo dopo tutto questo percorso i Discorsi profetici mi sono apparsi semplici.

I profeti hanno esposto per lo più in modo ciclico, con il discorso successivo che riprende, dettaglia e amplia quello precedente. Non è perciò strano che i capitoli 23-25 di Matteo siano divisibili in tre cicli principali: 23:1-39; 24:1-35 e 24:36 a 25:46.

Seguendo lo stile dei profeti, nel capitolo 23 Gesù fa prima un’analisi della situazione della società di quel tempo (vv. 1-33), poi ne trae le conseguenze per il futuro (vv. 34-39), collegando le due parti con un significativo «perciò» (v. 34). Rendersene conto è essenziale per poi comprendere il lungo discorso sul futuro del capitolo successivo (24:1-35), nel quale si amplia quanto già sinteticamente anticipato in 23:34-39, che così rappresenta una bussola, necessaria per decifrare il complesso discorso successivo.

Il messaggio dei profeti era rivolto soprattutto ai loro contemporanei, con la finalità di spingere i singoli e la società a fare le scelte più opportune. Per questo il terzo ciclo (da 24:36 a 25:46) si concentra sull’applicazione pratica che Gesù ne deduce e che consiste essenzialmente nell’invito a essere vigilanti, preparandosi a fuggire, perché sarebbe arrivato un giudizio di Dio simile alla distruzione del primo Tempio e alla collegata deportazione operata a suo tempo dai Babilonesi. Credenti e non credenti si accorgeranno presto quanto fossero preziosi questi avvertimenti di Gesù, dato che dopo meno di 40 anni (70 d.C.) Roma distruggerà il Tempio e poi allontanerà gli Ebrei dalla Terra promessa.

Gesù dice allora tutto ai contemporanei e niente a noi? In un certo senso sì, ma di quelle parole possiamo farne molte applicazioni utili. Dobbiamo poi considerare che un profeta aveva il compito di orientare il popolo di Dio fino al profeta successivo. È perciò essenziale andare a vedere come poi Pietro e Paolo hanno interpretato le profezie di Gesù, con un vantaggio per noi essenziale. Infatti, siccome hanno scritto per farsi capire anche dai Gentili, il loro semplice e sintetico linguaggio è in grado di orientare chiunque.

Sarà poi l’Apocalisse di Giovanni a caratterizzarsi come l’ultimo organico messaggio sul futuro, rivolto non solo alle persone di quel tempo, ma anche alle generazioni future. Apocalisse che non a caso usa schemi simili a quelli dell’ultima organica profezia dell’Antico Testamento, che è quella di Daniele.

Dialogo 7/A. Il cap. 23 come bussola e come messaggio a QUELLA generazione.

I Discorsi profetici di Gesù cominciano in modo evidente con l’avvisare sull’arrivo di «guai» (23:13). Il messaggio riguardava direttamente «scribi e farisei», ma indirettamente anche tutto il popolo, dato che la maggioranza si faceva guidare da loro. Gesù ha rivolto otto specifiche accuse alle guide spirituali del popolo di Dio. La prima può ritenersi riassuntiva, nella quale la religiosità di scribi e farisei è definita inefficace per loro stessi (un “suicidio”, si direbbe), impedendo la salvezza anche di altri. I capi Giudei erano insomma divenuti spiritualmente una specie di “assassini seriali” e perciò bisognava fermarli.

«Serpenti, razza di vipere, come scamperete al giudizio della geenna?» (23:33). Questo versetto funziona da ponte, perché prima riassume e chiude le accuse, poi si pone una domanda che può far pensare che non scamperanno dalla condanna, oppure che scamperanno molto difficilmente. Alla luce di come Gesù prosegue il discorso, i due significati tendono a coesistere.

«Perciò ecco, io vi mando dei profeti, dei saggi e degli scribi; di questi, alcuni ne ucciderete e metterete in croce; altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città» (23:34)». Gesù manderà dei profeti? Dopo quelle accuse così radicali, dopo che lo avranno ucciso, come può Gesù annunciare che manderà dei profeti, dei saggi e degli scribi, pur sapendo che saranno anche loro inascoltati e perseguitati? A noi sembra assurdo, ma è in piena continuità con l’Antico Testamento.

Ci limitiamo a uno dei tanti esempi. In Ezechiele 16 troviamo che Dio considerava il regno di Giuda come peggiore di quello di Samaria, che aveva fatto distruggere, e perfino di Sodoma (vv. 46-58). Poi conclude in un modo non immaginabile: «Io farò a te come hai fatto tu, che hai disprezzato il giuramento, infrangendo il patto. TUTTAVIA mi ricorderò del patto che feci con te nei giorni della tua giovinezza e stabilirò per te un patto eterno […] Io stabilirò il mio patto con te e tu conoscerai che io sono Javè, affinché tu ti ricordi, tu arrossisca e tu non sappia più aprir la bocca dalla vergogna, quando ti avrò perdonato tutto quello che hai fatto» (vv. 59-63). Da passi simili a questo si può chiaramente vedere che, considerare l’Antico Testamento come basato sulla legge in contrapposizione a una grazia che comincerebbe con Gesù, è segno di una comprensione ancora superficiale e distorta di Dio e della sua Parola. Dato che, per esempio, legge e grazia di Dio si sono rivelate ambedue già ad Adamo.

L’affermazione di Gesù significa che proverà attraverso altri a produrre un pentimento nel suo popolo, così da permettere a Dio di evitare l’esecuzione della condanna. L’annuncio della catastrofe va perciò visto nell’ottica di quello di Giona a Ninive, che nella sua forma appariva irrevocabile (Giona 3:4), ma Dio aveva mandato Giona a Ninive proprio sperando in un pentimento di quella città (Giona 4:10-11). Nel Nuovo Testamento non è difficile individuare tre successivi messaggeri inviati a Israele: Pietro, Stefano e Paolo (Atti 3:17-26; 7:51-53; 22:1-21).

«Io vi dico in verità che tutto ciò ricadrà su questa generazione» (23:36). Gesù ha rivolto il discorso alle persone del suo tempo e del suo luogo, avvisandole anche sui tempi entro i quali Dio avrebbe agito. Non c’è dubbio che i suoi ascoltatori, specie i più giovani, capirono che dovevano prepararsi al disastro. Certi studiosi arrivano a inventare incredibili e fantasiose interpretazioni sulla generazione alla quale Gesù si riferirebbe. Che Gesù intendesse proprio quella generazione che aveva davanti è confermato dall’uso dell’espressione fattone in precedenza (12:39-45; 16:4) e che è ribadito poco dopo (24:34). Un’interpretazione confermata anche dalla storia, dato che circa 40 anni dopo (70 d.C.) i Romani distruggeranno Gerusalemme e il Tempio, uccidendo, deportando e allontanando gli Ebrei dalla Terra promessa.

«Non mi vedrete più, FINCHÈ non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”» (23:39). Tutti i profeti finiscono con parole di speranza. Nel buio quadro fin lì dipinto, Gesù accende la luce del «FINCHÉ», per indicare che «le tenebre non dureranno sempre» (per dirla con Isaia 8:23).

Gesù ha accettato di distaccarsi da Gerusalemme, ma come Figlio di Davide non può rinunciare a essere un giorno “re in Gerusalemme”, ha perciò continuato e continua ad adoperarsi affinché ci siano le condizioni per un suo ritorno. In fondo si riducono a una sola: tornare non per imporsi contro la loro volontà, ma perché desiderato e invitato con una semplice frase, che è estratta dal Salmo 118:26 e che riportiamo, insieme al versetto che la precede: «O Javè, dacci la salvezza! O Javè, facci prosperare. Benedetto colui che viene nel nome di Javè». L’attesa di un “colui” che avrebbe portato salvezza e prosperità era molto viva al tempo di Gesù. È proprio questo “colui” che aveva annunciato Giovanni (Mat 3:11; 11:3). Nel contesto dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Matteo aveva già precisato che la gente, con quell’espressione, intendeva il «Figlio di Davide» (21:9), cioè il Messia, il nuovo re d’Israele, come esplicitamente riportato nei seguenti passi paralleli di Luca e di Giovanni. Luca racconta di una folla di discepoli che grida: «Benedetto il re che viene nel nome del Signore» (Luca 19:38). Con Giovanni che si esprime in modo simile: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele».

Dialogo 7/B. La sintesi finale di Matteo: il Messia è venuto e non è mai andato via (28:18-20).

Ogni potere mi è stato dato… fate miei discepoli… Io sarò con voi sino alla fine (28:18-20). La vicenda della crocifissione rendeva opportuno che Gesù ribadisse il programma precedente, a cominciare dal suo essere re («Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra»), rilanciando poi il progetto di spargere il seme del Vangelo (cfr. 13:23-38), attraverso il riprodursi dei discepoli su tutta la Terra («fate miei discepoli tutti i popoli»). Una missione che sarà possibile perché Gesù li aiuterà («io sarò con voi»). Richiamando implicitamente la parabola del granello di senape (13:31-32), per rassicurarli che il loro essere in pochi non impedirà una grande crescita. Il compito dovrà essere portato avanti più velocemente possibile, perché solo quando sarà compiuto ci sarà «la fine dell’età presente», con l’insediarsi di un regno di Dio ripulito dalle zizzanie, cioè da «tutti quelli che commettono l’iniquità» (13:41-43,49).

«Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (28:20b). Questa chiara affermazione riprende la promessa fatta in 18:20: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». In che senso Gesù è con noi? Come si concilia con il fatto che è salito in cielo, da dove tornerà alla fine dei tempi? (Atti 1:11; 3:20-21; Ebr 10:12). È presente solo per mezzo dello Spirito Santo, che lo ha sostituito? (Giov 14:15-25; 16:12-15).

L’ascensione di Gesù in cielo è riportata solo da Luca, che la mette alla fine del suo Vangelo e all’inizio del collegato libro degli Atti (Luca 24:51; Atti 1:11). Bisogna perciò considerare il significato che lo stesso Luca gli dà e che si può ricavare proseguendo la lettura degli Atti. In essi troviamo che effettivamente Gesù sale in cielo ed è poi sostituito dallo Spirito Santo, ciò però non significa che Gesù resti totalmente assente, perché lo vediamo intervenire in modo diretto soprattutto nella vita di Paolo (9:3-5; 18:9; 22:18; 23:11; 26:16). Questa presenza diretta non deve essere considerata un’eccezione, perché Paolo è stato suscitato come un modello da imitare (1Cor 4:16; Fil 3:17; 4:9). Gesù promette poi una sua relazione personale e diretta anche ai membri della pessima chiesa di Laodicea: «Io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Apo 3:20).

Siccome è Giovanni a dilungarsi sul fatto che Gesù verrà sostituito dallo Spirito Santo (14:15-25; 16:12-15), anche in questo caso dobbiamo allora vederne il contesto. Pure per Giovanni l’assenza di Gesù non è totale e anzi la sua presenza è in qualche modo rafforzata. Per non dilungarci, consideriamo due altri passi di Giovanni presenti nel contesto, cominciando da 14:19: «Il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete». Il rapporto fra Gesù e i discepoli, dopo la discesa dello Spirito Santo, non diventerà “per interposta persona”, ma resterà “diretto e fra viventi”. Molto significativo è anche 14:23: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l’amerà; e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui». Tutto diventa più comprensibile se consideriamo che Padre, Figlio e Spirito Santo non agiscono facendosi concorrenza, ma in collaborazione. Aprirsi all’influenza dello Spirito Santo, allora, significa capire meglio Gesù e così arrivare a stabilirci una relazione più profonda.

In conclusione, Gesù è scomparso agli occhi del mondo, che lo vedrà come giudice al suo ritorno (Mat 25:31-32; Apo 1:7), ma Gesù continua a essere presente fra i discepoli in modo segreto, reale ed efficace, con la possibilità per ognuno di stabilire con lui una vivente relazione diretta.