DIALOGO SULLA SOFFERENZA

Mia moglie Gilda usa la sedia a rotelle dal 1989, essendo divenuta paraplegica a seguito di un incidente stradale. L’amico Daniele Bastari la invitò nel 2005 a condividere qualche pensiero nella chiesa avventista di Lentini (Siracusa) e, come preparazione all’esposizione orale, preparò il sottostante testo di quattro pagine. Fernando De Angelis (3/11/18).

di Ermenegilda Alunno Paradisi. Lentini (Siracusa), sabato 12/3/2005.

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1.Introduzione

2.La mia esperienza

3.Per sopportare la sofferenza

4.L’attitudine di Cristo di fronte alla sofferenza

5.Guardare oltre

6.L’atteggiamento della Chiesa

7.Conclusione

1.Introduzione

La sofferenza non è un argomento accademico sul quale imbastire discorsi più o meno ragionevoli. Di fronte a essa siamo spesso presi dall’orrore, dalla paura e da un atteggiamento di rifiuto. Ci scopriamo senza armi e senza risorse. Essa non si può circoscrivere, è come un oceano grande, profondo e ogni giorno rischiamo di esserne sommersi. Quale atteggiamento avere? Fuggire adducendo scuse? O chinarsi mostrando amore e compassione? Insomma imitare il famoso “buon Samaritano”  o il sacerdote che si gira dall’altra parte? (Luca 10:30ss.)

La sofferenza è un’esperienza universale che prima o poi tutti saremo chiamati ad affrontare, fa parte del cammino di ognuno di noi. Essa però possiede anche un carattere autobiografico, perché ciascuno la vede attraverso la sua particolare prospettiva, mai uguale a quella di un altro. Non si può quindi generalizzare e la mia è una lente particolare, che riflette il percorso che ho fin qui fatto, il particolare modo nel quale Dio mi è venuto incontro.

La sofferenza che conta è sempre quella che ci tocca in maniera più diretta, perché quello che è lontano non risveglia la nostra attenzione. Oggi si cerca di rimuovere la sofferenza: la pubblicità esalta la forza, la giovinezza, la bellezza e la buona sorte, che sono presentate come condizioni alle quali si ha diritto. La sofferenza è qualcosa che fa paura, destabilizza le nostre certezze. Tendiamo perciò a cercare esempi che possano collegare il peccato alla sofferenza: dobbiamo individuare la colpa per rispondere al nostro bisogno di ordine e di spiegazioni.

Parlare e discutere della sofferenza, comunque, significa stimolare una discussione che è profondamente personale, radicata nella nostra visione non solo di Dio, ma anche della nostra vita.

2.La mia esperienza

La prima volta che ho veramente sofferto è stato nel 1984, quando mio padre è morto. Con lui moriva anche una parte della mia vita e il dolore è stato presente per anni, anche quando pareva dimenticato, riemergeva ad un tratto con tutta la sua forza. Poi col tempo sono morti parenti cari, amici e la carta geografica della mia vita, con i suoi punti di riferimento affettivi, ha subito delle trasformazioni profonde.

La sofferenza non è mai neutra e indifferente, lacera i nostri cuori, spezza i nostri corpi. Ci piomba addosso all’improvviso, ci lascia storditi, increduli. Intorno a noi restano solo detriti, macerie, vite bruciate. A volte ci si chiude in un silenzio di tomba, ma che ha lo stesso fragore assordante e tremendo di un terremoto, il cui boato resta all’interno delle viscere della terra. In altri casi c’è una rivolta, un rifiuto del dolore che esce all’esterno, come in Giobbe e in altri profeti, che manifestano una protesta aperta, chiara, consapevole. Perché succede tutto questo? Sono tante domande che prorompono e anche nel Salmo 22 non si minimizza, ma viene fuori tutta l’amarezza.

Nel 1989, all’età di 41 anni, ho subìto un grave incidente che mi ha resa paraplegica. Ho trascorso quasi nove mesi in vari ospedali, fra coma, operazione, risveglio e riabilitazione. Che strano effetto vedermi in sedia a rotelle, non riuscivo a crederci! Eppure quella faccia che mi rimandava lo specchio era proprio la mia. Vedevo la mia immagine spezzata, come una bambola di pezza gettata là senza nessun riguardo. Anche se interiormente mi sentivo come prima, con le mie capacità, i miei dubbi, le mie debolezze.

Mi hanno detto chiaramente che il mio midollo spinale era tagliato e non avrei potuto più ricamminare, eppure mi sembrava come se parlassero di un’altra persona. Poi piano piano ho capito cosa significava essere paraplegici, essere ogni giorno, ogni momento di fronte ad un limite. Quella è stata la mia morte, era come se vedessi scavare la mia fossa per esservi sepolta viva.

Mi sentivo un po’ come un ostaggio in mano ad un nemico che mi diceva: «Se hai un padre buono come può averti ridotto così, lasciarti in questo stato?» In Lamentazioni 3:1-25 è scritto qualcosa che mi ha colpito e che vi riassumo: «Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione… Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre… Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa… Mi ha circondato di un muro perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato… Tu mi hai allontanato dalla pace, io ho dimenticato il benessere. Io ho detto: “È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!”… Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite, si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà! “Il Signore è la mia parte”, io dico, “perciò spererò in lui”. Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca».

Ognuno è toccato dalla sofferenza (malattie, lutti, miseria, ingiustizie, depressioni, delusioni). La sofferenza del mondo è quotidiana: fame, violenze, guerre, catastrofi. Come riuscire ad integrare tutto questo come facente parte della stessa condizione umana? Per alcune religioni (per esempio l’Induismo) la sofferenza non è un problema, mentre per la visione giudaico-cristiana il problema altroché se si pone. Perché se crediamo che Dio è buono e che si preoccupa di noi, allora la sofferenza diventa una contraddizione radicale.

3.Per sopportare la sofferenza

Nell’affrontare la sofferenza dobbiamo utilizzare anche fede nella nostra intelligenza naturale, una specie di bussola interiore che ci aiuta ad affrontare i problemi: lucidità, coraggio e compassione mi sembrano importanti quanto il sostegno spirituale. Nella lotta spesso non si ha più un pensiero coerente, perché si vuole essere liberati ad ogni costo. Abbiamo bisogno di capire quello che ci succede, trovare un senso per reagire in un modo saggio, non siamo pronti, siamo inermi e all’inizio non sappiamo assolutamente come rispondere al colpo ricevuto.

Prendere atto della propria condizione, qualunque sia la realtà, è un vantaggio. D’altronde non abbiamo altra scelta: non possiamo negare quello che ci è successo! Intanto è meglio cominciare a prendersi cura di se stessi, la luce verrà a suo tempo. La meditazione e la preghiera rafforzeranno il nostro coraggio, la nostra resistenza e pazienza. La più grande fonte di aiuto è lo Spirito di Dio, perché è dall’alto che ci viene la nostra forza interiore.

Possiamo dire no all’angoscia, non negando la realtà ma guardandola in faccia, nonostante sia dura. Possiamo superare il peso dell’avversità lasciando che il tempo la trasformi. Non siamo totalmente impotenti di fronte alla sofferenza.

La nostra relazione con Dio nasconde delle enormi risorse contro la sofferenza, contro la confusione e la disperazione. Restiamo interiormente liberi, non assecondiamo le mosse dell’avversario, di colui che cerca da sempre e per sempre di dividerci da Dio, non permettiamo che la nostra mente sia ridotta di nuovo in schiavitù. Trasformiamo la nostra sofferenza in un risveglio. Dio non impedisce la sofferenza, ma impedisce che essa diventi per noi una forza negativa.

4.L’attitudine di Cristo di fronte alla sofferenza

Domande, domande e ancora domande sono quelle che noi poniamo a Dio, che spesso non fornisce un’evidente risposta, o almeno una risposta inseribile nei nostri schemi mentali. Dio però non considera mai le nostre domande come imprudenti, considera legittimo che ci interroghiamo sulla sofferenza. Ci offre esempi nella Scrittura del modo in cui si possono porre domande anche audaci, senza con ciò compromettere il rapporto con Lui. Dio non vuole sopprimere le nostre emozioni e i nostri sentimenti, vuole darci la capacità di convogliare queste energie in una nuova direzione, che non è silenziosa subordinazione,  ma attiva cooperazione con Lui.

Quella che gli ebrei chiamano la shekinah (la presenza di Dio) è stato offuscata dalla rottura fra creazione e creatore, fra l’uomo e il suo simile, fra l’uomo e il suo linguaggio, fra le parole ed il senso che esse nascondono.

Gli esempi  e l’approccio che troviamo nella Bibbia costituiscono un modo per vivere nella fede ed al tempo stesso esercitare il candore del bambino. Col tempo emergerà il senso, si potrà dare un senso a quello che ci succede.

Non ci sono mai parole adatte per parlare del dolore, quello degli altri e soprattutto il proprio. C’è un lungo cammino da fare per cercare di penetrare a fondo la complessità della condizione umana. Cristo stesso non ha dato una spiegazione di fronte alla sofferenza, a quello che ci succede. Egli ci invita ad esprimere il nostro dolore in tutta la sua brutalità, ci ascolta e sa che in quei momenti ci sentiamo abbandonati. Lui stesso ha detto sulla croce: «Padre perché mi hai abbandonato? Tu puoi togliere da me questo calice! Ma non quello che io voglio, ma la tua volontà sia fatta». Gesù però vedeva oltre la propria sofferenza.

La sofferenza e la morte sono uno scandalo, ma Gesù è venuto per vincerle. Non è stato solo a guardare, ma ha acceso una luce in mezzo a quelle tenebre. Ha operato, si è chinato con compassione, ha teso la sua mano per guarire e risuscitare. Ha riabilitato socialmente e nel corpo i miseri, i malati, gli handicappati. Ha decretato la vittoria dell’amore sul potere del male, mostrandone i segni concreti: «Ecco io sono con voi fino alla fine dell’età presente» (Mt 28:20).

La croce, voluta dagli uomini, fu intessuta da Dio nell’arazzo della redenzione del mondo.

5.Guardare oltre

Quando ci sentiamo soli e abbandonati, sappiamo che Dio è là e ci dà la forza per affrontare la prova. Dio ci chiama a guardare oltre. La figura del Cristo appeso al palo faceva comprendere e vedere tutta la debolezza, il limite, la sofferenza del corpo. Insultato e preso in giro («Vuoi salvare gli altri, salva te stesso») abbandonato dai suoi stessi amici attanagliati dalla paura. Ma in quel corpo martoriato c’era l’evidenza dell’estremo atto dell’amore di Dio: la morte finalmente vinta, nonostante l’apparenza contraria.

Quando vediamo delle persone malate, trasfigurate, quasi irriconoscibili per le tante malattie, mutilate, in sedia a rotelle, persone con handicap vari che sono impotenti a difendersi, allora ricordiamoci che noi cristiani siamo invitati a guardare oltre, come il malfattore che appeso al palo non vide in Gesù solo un morente, ma intuì lo splendore della santità del figlio di Dio. Non abbiamo aver paura dell’altro, perché se anche il suo corpo ed il suo spirito sono sofferenti, è uguale a noi di fronte a Dio, essendo anch’egli immagine di Dio.

La mia esperienza è che anche se Dio non appare in modo evidente, anche se sembra muto ed indifferente al nostro grido, lui resta là e non ci abbandona. Muove i suoi, anche quelli che noi crediamo che non gli appartengano. Dio ci sostiene usando le braccia, le gambe e i cuori delle persone, perché il regno di Dio non è lontano: è dentro di noi e deve solo manifestarsi.

La parabola degli amici che sollevano il lettuccio dell’amico malato, per poi poterlo calare dal tetto e presentarlo a Gesù, è un bell’esempio di quello che si può fare per l’altro. Dio può fare cose meravigliose attraverso persone che ci manifestano fede, amore e compassione. Io ho avuto di questi amici: mio marito, alcuni fratelli e sorelle di Ginevra, una compagna di scuola, una ex alunna, alcuni amici e amiche che non mi hanno abbandonato e che non si vergognano di me. Vedo Dio in questi amici.

La sofferenza non faceva parte dell’ordine creato da Dio, essa è un’intrusa. Dio avrebbe potuto certamente impedire il primo peccato e tutti gli altri successivi, ma nel momento in cui avrebbe cessato di intervenire avremmo ritrovato la stessa situazione. Se Dio è un Dio d’amore, deve lasciare agli uomini la libertà di decidere, di scegliere. Un mondo costantemente corretto dall’intervento divino, sarebbe diventato un mondo nel quale niente sarebbe dipeso dalla scelta umana e dalla sua responsabilità. Sarebbe stata una vita senza senso, senza importanza.

Eppure anche questa spiegazione non basta e viene da chiedersi: perché Dio lascia morire in carcere Giovanni Battista? Perché viene ucciso Stefano, un giovane cristiano ripieno dello Spirito Santo che avrebbe potuto bene operare? Perché la Chiesa, riscattata dal sangue di Cristo, si comporta spesso in modo sconveniente? Perché il male si manifesta anche là dove dovrebbe esserci solo luce? Perché la zizzania deve sempre inquinare il grano? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta pienamente soddisfacente.

6.L’atteggiamento della Chiesa

Devo dire che spesso noi cristiani siamo impreparati: rimaniamo scossi, spiazzati di fronte alle persone con handicap o con altre difficoltà. È necessario però confrontarsi con il problema, non rinunciare ad un cammino di solidarietà, di condivisione del dolore.

Tutti noi facciamo parte di un’umanità handicappata, che ha bisogno di essere trasfigurata da Cristo. Ognuno ha qualche difficoltà, di fronte alla quale è tentato di tirarsi indietro; non affrontando l’ostacolo, si rinuncia a superarlo. Si tratta di una sfida, una chiamata alla quale siamo invitati a rispondere per radicare la nostra fede sull’esempio di Cristo: «In verità io vi dico che in quanto l’avete fatto ad uno di questi minimi fratelli, l’avete fatto a me».

Evitare il rifiuto e l’indifferenza come pure il pietismo, che è una forma di disprezzo più umiliante del rifiuto. Evitare l’emarginazione e promuovere un’integrazione partecipativa dei soggetti. Non avere stereotipi, ma lasciarsi sorprendere anche dai doni e dalle capacità che possono esprimere anche i più deboli. Il confronto con l’handicap aiuta ad abbandonare i sogni di onnipotenza e di controllo di tutte le situazioni. La presa di coscienza della fragilità corrisponde alla capacità di vedersi così come si è. Essa invita all’autenticità dei gesti e dei sentimenti: con chi ha un handicap è più difficile barare, perché più degli altri è sensibile al linguaggio del corpo, perciò i gesti devono essere in sintonia con le parole, altrimenti la relazione à compromessa.

Colui che accetta la persona con handicap accetta di considerare la propria fragilità, che vede come in uno specchio. In questa relazione si ritrova senza il sostegno delle convenzioni abituali, appare allora nudo, vulnerabile.

La paura della morte è inchiodata nel cuore dell’uomo. Più vicina e più banale è la paura di invecchiare, di dipendere dagli altri, di non sapersela più cavare da soli. Uno dei dati di fatto dell’uomo è il limite e la presenza di una persona con handicap lo ricorda continuamente. Bisogna andare oltre e non avere paura. C’è una frase scritta in un libro molto conosciuto, Il Piccolo Principe: «Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».

7.Conclusione

Il Signore ha messo tante risorse a nostra disposizione, ci ha dato dei talenti secondo le nostre capacità (Matteo 25:14). Siamo chiamati ad agire oggi, non solo per fini egoistici, ma trovando un equilibrio fra l’amore per se stessi e l’amore di chi ci sta intorno. Anche la Chiesa deve investire in risorse umane, fare tutto il possibile perché ognuno dia il meglio in tutto quello che fa. Mi piace ricordare le parole di Martin Luther King, pastore battista ucciso perché impegnato nella lotta antisegregazionista. Nel libro La forza di amare ribadisce che ogni persona possiede dei talenti, nessuno è inutile o di poca importanza. Riporta poi una frase significativa di Douglas Mallock, che credo si adatti bene sia alle persone con handicap sia alle persone “normali”: «Se non potete essere un pino sulla vetta del monte, siate una scopa nella valle, ma siate la migliore piccola scopa sulla sponda del ruscello. Siate un cespuglio se non potete essere un albero. Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero, se non potete essere il sole, siate una stella: Non con la mole vincete o fallite, siate il meglio di qualunque cosa siate».

È vero che un bel corpo pieno di energia, prestante e vigoroso è importante per il proprio benessere fisico e rappresenta un lasciapassare che facilita l’accettazione sociale. Avere un aspetto esteriore perfetto non credo però che sia la cosa più importante. Ci sono persone provate nel corpo che non lasciano avvizzire la speranza, ma combattono, hanno il coraggio di affrontare onestamente i propri sogni infranti, cercano con tutti i mezzi di trasformare la perdita in acquisto.

Noi siamo più che solo i nostri corpi.